Antonio Tabucchi, così l’Italia è diventata il mio grande rimorso
Repubblica — 27 gennaio 2010
Andrà in scena a Roma l’ esordio letterario di Antonio Tabucchi, una “favola popolare in tre tempi”, come lo scrittore volle chiamare Piazza d’ Italia. In quel primo romanzo pubblicato alla metà degli anni Settanta c’ è tutto il Tabucchi successivo, cantastorie in un paese senza memoria. C’ è la sua ossessione per il tempo, soprattutto il “corpo a corpo” con la vicenda nazionale italiana, luttuosae grottesca insieme, sciagurata e grandiosa. Vi si narrano le storie d’ una famiglia toscana di garibaldini, anarchici e poi comunisti, tutti ribelli condannati alla sconfitta.
Il capostipite Plinio “prende a calci” Pio IX scagliando contro la cupola di San Pietro il piede ferito e amputato dopo la battaglia. I figli maschi si chiamano Quarto, Volturno e Garibaldo e le loro microesistenze insieme a quelle dei loro discendenti s’ intrecciano con la grande trama dell’ epica nazionale, dall’ Unità d’ Italia fino ai primi anni Sessanta. Una narrazione condotta secondo il registro del fantastico, però piena zeppa di morti, di salme, di presenze funebri, «perché quella italiana è una storia tragica». Ora ne curerà la messa in scena Marco Baliani al teatro India, dall’ 8 fino alla fine di febbraio.
Per convincersi che Piazza d’ Italia sia un esemplare incunabolo di Tabucchi, basterà leggerne la prima pagina. C’ è il garibaldino Plinio stecchito nella bara, le braccia conserte sul vestito nuziale. Il figlio Garibaldo non si capacita. «E allora suo padre gli venne in aiuto: si mise a sedere, sfilò l’ orologio dal taschino e disse: “C’ è ancora un po’ di tempo”. Poi chiese un mezzo sigaro e fumando con calma voluttà tentò di fargli capire, se non cos’ era la morte, cos’ era la vita».
Tabucchi, lei pubblicò Piazza d’ Italia quasi per caso. «Nel 1973 mi stavo specializzando in filologia alla Scuola Normale di Pisa. Avevo 30 anni e non pensavo di fare lo scrittore. Lo scrissi per ingannare la noia d’ una estate mentre con mia moglie Maria José aspettavo un figlio. Il dattiloscritto rimase buttato su una consolle, nell’ ingresso, finché passò a casa mia Enrico Filippini, il “Nanni”, che allora era direttore editoriale di Bompiani “Cos’ è?”, mi chiese indicando i fogli. “Un divertimento”. Se lo portò via. Dopo due settimane mi telefonò: “Lo pubblico”. Avvenne così, per caso, come a volte accadono le cose importanti della vita». Da cosa nasceva l’ urgenza di comporre questa che lei ha definito “microepica italiana”? «Volevo narrare la vicenda collettiva di un borgo toscano durante un secolo di storia. In questa favola popolare i cambiamenti politici non mutano mai la vita degli abitanti. Chi vuole veramente modificare lo status quo, paga con la vita. Il monumento alla democrazia innalzato sulla piazza del paese alla fine del romanzo è una sorta di simulacro, un’ immagine vuota. Il potere che si cela dietro la statua si muove sempre secondo le stesse regole repressive: nel periodo scelbiano come al tempo del Re, di Mussolini o del Granduca.
È la storia d’ Italia. La storia di un paese che fatica a trovare la democrazia». L’ ha voluta raccontare da parte di coloro che fanno la storia, ma non possono scriverla. Un’ antistoria d’ Italia. «Forse nasce lì il desiderio di confrontarsi con un’ ineffabile e capricciosa figura che noi chiamiamo Storia.I greci capirono che la Storia aveva bisogno di una musa. Ma capirono anche che Clio non poteva limitarsi a proteggere la scrittura della Storia, ma doveva proteggere anche la facoltà su cui l’ essenza della Storia si basa, la Memoria. Se una delle due componenti non c’ è più, la storia svanisce come nebbia al sole. Piazza d’ Italia nasce allora dal bisogno di salvare i vinti dai vincitori, dalla storia scritta dai vincitori».
Nell’ uso pubblico della storia, l’ Italia mostra una sua originalità, altalenando tra una liquidazione del passatoe un suo utilizzo strumentale. «Da noi il fantasma del revisionismo non ha trovato gli anticorpi che operano altrove. Il guaio è che questa pseudostoria non viene propagandata soltanto dai falsi storici ma anche dalle istituzioni. Anche il dibattito sul craxismo è stato esemplare: come si fa a elogiare la politica estera di un premier che ha finanziato un dittatore sanguinario come Siad Barre?». Secondo lei perché il nostro paese ha un rapporto così tormentato con il passato? «Forse perché l’ Italia non ha mai riconosciuto le proprie colpe. La storia si nutre di gesti simbolici e noi non abbiamo mai avuto un Willy Brandt che si inginocchia nel ghetto di Varsavia. Anche noi siamo responsabili di colpe gravissime, ma non abbiamo mai chiesto scusa. Come se l’ Italia sfuggisse sempre all’ immagine di se stessa».
Da Piazza d’ Italia fino agli ultimi racconti de Il tempo invecchia in fretta (Feltrinelli), è costante questa sua caparbietà nel misurarsi con la “capricciosa creatura” che è la storia. Ma è legittimo mettere questa sua “ossessione” in relazione con le persistenti amnesie del nostro paese? «Credo di sì, con un’ avvertenza. Quando si scrive un libro come Piazza d’ Italia non ci si rivolge necessariamentea una contemporaneità smemorata. La letteratura non ha la funzione di Oliver Sacks che cerca di animare i pazienti. Può però risvegliare le coscienze. Si lascia lì una pietruzza nella strada di Pollicino, poi si vedrà se qualcuno la raccoglie».
Una “memoria lunga” contro la “memoria breve” di una comunicazione effimera. «Dal punto di vista dei cento metri, la letteratura perde sicuramente. È una maratoneta. Non vorrei fare paragoni azzardati, ma noi conosciamo la Francia di Napoleone III grazie all ‘ Educazione sentimentale, non dalla pubblicistica dell’ epoca». Q uando scrisse Piazza d’ Italia lei non ne era consapevole. «Mi viene in mente una frase di Guimaraes Rosa: un libroè sempre più grande di noi. Un romanzo sfugge sempre alle intenzioni di chi lo scrive. È sempre più grande del suo autore».
Seppur narrato in chiave favolistica, il suo racconto della vicenda nazionale è una storia piena di morti e sangue. È così tragica la storia italiana? «Io la vedo così. Dall’ ingresso nella Grande Guerra in poi, prevalgono macerie e vittime. Gli scrittori l’ hanno registrato in modo esemplare. Pensi a Giorni di guerra di Giovanni Comisso o al Giornale di guerra e prigionia di Carlo Emilio Gadda, ma anche a Eros e Priapo o alle pagine di Pier Paolo Pasolini: la letteratura italianaè testimonianza di una storia veramente tragica». Anche lei sente questa vocazione. «L’ Italia è una questione che ho con me stesso. Un paese può costituire un rimorso. Quando prevale il peggio – sul bello di fondo di una realtà che si ama – diventa una sorta di rimorso sordo di cui non ho colpa, ma è mio. Diventa una questione che mi riguarda. Dentro quella storia, ci sono anche io». “Ti ricordi com’ era bella l’ Italia?”. Lo dice il personaggio di un suo racconto recente. «Era bellissima quella Italia, quando non c’ era ancora la devastazione né somatica né linguistica. Nel volto delle persone semplici era dipinta una sorta di nobiltà intrinseca. E nella loro voce si sentiva il verso dantesco “le genti del bel paese là dove ‘ l sì suona”. Ora non è più così».
Che effetto le ha fatto rileggersi dopo 37 anni? «È come vedere un album di fotografie. A volte mi domando: ma sono proprio io? In realtà uno è se stesso anche se cambia aspetto od opinione. Forse perché dentro rimane quello che i greci chiamavano fantasma, che non è l’ imago dei latini ma l’ essenza di quel che siamo. Si nasce con lo stampino». Com’ è lo stampino di Tabucchi? «È la capacità di emozionarsi, anche di indignarsi. Quella che lei ha prima definito “caparbietà”, ma forse significa soltanto essere attaccati alla vita». SIMONETTA FIORI