Devendra Banhart30 Dicembre 2008. La temperatura marca 30 sul barometro del chiringuito e mi trovo a passeggiare sulla lunga spiaggia di Zipolite, nel profondo Messico della costa del Pacifico. Un’ora di macchina da Puerto Escondido e una manciata di km da Puerto Angel, tanto per dare una idea del posto. Qui le uniche categorie umane ammesse sono surfisti, nudisti e frotte di hippies (originali e anche presunti) che, mentre ci avviciniamo al tramonto, già preparano i fuochi intorno ai quali si raccoglieranno copiosi al calare delle tenebre. Chitarre e bonghi, ma anche percussioni inventate al momento per dare una degna cornice sonora a quelle improvvisate riunioni. Un forte odore di marijuana si leva da ognuno di questi capannelli, impossibile non restarne inebriati. E mentre passeggio mi chiedo cosa ci faccio in questo posto fiabesco dato che non sono un surfista, non pratico il nudismo e non mi sento affatto né hippie né figlio dei fiori.

Ma dal mio I-Pod (un hippie non gira in spiaggia con un I-Pod, ma neppure i nudisti e i surfisti lo fanno), dicevo dal mio I-pod, la musica che accompagna la mia passeggiata solitaria è terribilmente adatta alla situazione. Mi sembra quasi che le persone che animano la spiaggia e si preparano ad un rituale che si ripete ogni giorno della settimana e ogni mese dell’anno, si muovano tutte quante al ritmo della musica di Devendra Banhart.

Nino Rojo e Cripple Crow, due album che fanno parte della fase centrale della produzione di questo cantautore texano, finiscono nel mio I-Pod grazie a Sarah, che me ne impone l’ascolto.
Pena la retrocessione dalla qualifica di “amico speciale” a quella di “amico comune”, con tutti gli svantaggi che questo passaggio di categoria comprende. Non godere più dei suoi suggerimenti musicali mi appare una punizione inumana e il folk strampalato di Devendra comincia a girare sul mio lettore. Rimanere affascinato dalla musica e dalla voce di questo trentenne barbuto è fin troppo facile. E mentre passeggio mi chiedo se non posso, almeno per questa sera, almeno per una volta, sentirmi hippie come forse si sentono gli abitanti di questa meraviglioso angolo di Terra che è Zipolite.
Non ho “le physique du role” per fare il surfista e neppure per darmi al nudismo, ma hippie per una sera posso esserlo. Grazie Devendra, grazie Sarah, missione compiuta!

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La vita di Devendra, uno spicchio di storia che va dal 1981 ad oggi, pare già un romanzo d’avventura. Un bizzarro nome suggerito ai genitori da un mistico indiano e una vita da consumato busker vissuta tra il natio Texas, il Venezuela, l’Europa, la California e New York.
A Caracas il nostro Devendra ci finisce perché costretto a seguire la madre, affascinante creatura bohemienne, in seguito alla separazione dei genitori.

Quando tornerà a vivere negli Stati Uniti assieme alla sua famiglia e un nuovo padre, porterà con sé un’eredità importante. L’esperienza sudamericana gli imprime come un marchio profondo l’amore per lo spagnolo e fa nascere in lui quel suo canto stralunato che ritroviamo in quasi tutti i suoi albums.

Rientrato in patria Devendra si iscrive alla San Francisco Art Institute e si dedica con successo alla pittura e al disegno. Nascono dalla sua mano e dal suo genio creativo le copertine dei suoi primi albums e buona parte della grafica del suo sito ufficiale.
Date un’occhiata all’indirizzo www.devendrabanhart.com e vi renderete conto di come risulti impossibile scindere la musica e le note partorite dallo spirito folk di Devendra, dagli improbabili e strampalati tratti che contraddistinguono le copertine di “Oh Me, Oh My”, “Niño Rojo”, “Rejoicing The Hands”

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L’incontro con la musica nasce invece da due eventi ancora una volta fondamentali per dare l’avvio ad una promettente carriera da cantautore: all’età di dodici anni il padre gli regala una chitarra e nello stesso giorno la sua fidanzata lo lascia per mettersi con un altro ragazzo.

Le sghembe ballate intrise del suo personalissimo animo folk lo portano a suonare nei locali di Los Angeles e San Francisco. Ed è proprio nella città degli angeli che viene notato da Siobhan Duffy, vicina al cantante e produttore Michael Gira. Al termine di un concerto Siobhan si porta a casa un CD del nostro Devendra per la esorbitante cifra di un dollaro e quella registrazione finisce ovviamente nelle mani di Michael, ex cantante degli Swans e ora proprietario di una etichetta indipendente, la Young God Records.
E così Michael, incuriosito dalla personalità e dal suono vintage di Devendra, decide di andarlo ad ascoltare di persona. Una delle leggende che accompagnano il giovane songwriter texano vuole che quella sera, in un sushi bar di San Francisco, oltre a Michael Gira, ci sia pure Sammy Hagar, ex cantante dei Van Halen. Infastidito probabilmente dalle trasognate atmosfere che Devendra tesse per il suo pubblico, con un gesto provocatorio si alza e va a selezionare una canzone del suo vecchio gruppo nel juke box che si trova all’interno del locale.
Pare che Devendra, e qui non sappiamo bene dove la realtà si mescoli a leggenda metropolitana, con la tranquillità propria di un santone indiano, abbia mollato la chitarra per raggiungere il tavolo di Sammy e sputargli nel piatto dove stava mangiando del gustoso sashimi.
Della rissa che ne è seguita pare non ci siano disponibili cronache troppo precise ed attendibili…

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Ciò che invece sappiamo con certezza è che il giovane Devendra entra nelle grazie di Michael Gira e comincia a pubblicare i suoi primi dischi con la sua etichetta indie, la Young God. Il nostro affronta un altro oceanico trasloco e si stabilisce a New York dove nel corso degli anni darà alla luce delle vere e proprie perle: oltre ai già citati “Niño Rojo” e “Rejoicing The Hands”, uscirà per la Young God anche “Oh Me Oh My”. Poi il passaggio alla XL e l’uscita di “Cripple Crow”, quindi l’inatteso e criticato trasferimento ad una major, la Warner.
Aleggia spesso l’ombra di Daniel Johnston e della cantante Vashty Bunyan nelle composizioni del nostro Devendra. La musica e le parole sono spesso accompagnate da frasi sconnesse rubate da una segreteria telefonica, da improvvisati battimani fuori sincrono e da balbettanti fischiettii.

E ne succedono di cose nella vita del nostro Devendra. Non credo che negli ultimi anni abbia avuto modo di annoiarsi.
Il 2007 coincide con l’uscita dell’album “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” , forse il suo album meno riuscito, e con la fine della sua relazione con Bianca Casady, metà delle Cocorosie. Poi una breve love story con l’attrice premio Oscar Natalie Portman che coincide con un divettente il cameo nel video di “Carmensita”, tratto proprio dall’album “Smokey Rolls Down…”
Ma nel 2007 anche la vena artistico pittorica di Devendra ottiene un grosso riconoscimento: un posto al Moma di San Francisco con una mostra dal titolo “Abstract Rhytms”. Poi arrivano le collaborazioni con Cocorosie, Antony and the Johnsons, Vashti Bunyan.
Nel 2008, assieme a Greg Rogove dei Priestbird e Fab Moretti degli Strokes, il nostro Devendra, forse un po’ annoiato dalla monotonia e dalla routine quotidiana, da vita al progetto Megapuss.

Nel 2009 esce l’attesissimo album per la Warner. Il titolo è “What will we be?” e ci consegna un cantautore un po’ cambiato rispetto agli standards a cui ci aveva abituato. Via la lunghissima barba incolta e via i travestimenti eccessivi del periodo freak. Del resto lui stesso, lo si può leggere anche su una recente intervista pubblicata da Rolling Stone Italia, non si è mai sentito né troppo hippie, né tanto meno un freak, un diverso. Dichiara scherzosamente che alla fine dei concerti il suo camerino si riempie di fans che reclamano autografi e gli offrono marijuana. Lui accetta e ringrazia, per non deludere nessuno e mette da parte gli spinelli che, promette solennemente, fumerà soltanto più tardi. Lui stesso dichiara in quella intervista:
“Io non fumo marijuana, anche se tutti pensano che uno come me debba essere fatto 24 ore al giorno. E non mi sento affatto un hippie, non so neppure cosa voglia dire essere un hippie.”

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C’è un cambiamento sensibile in questo ultimo album del 2009, forse un definitivo addio al Devendra che ci aveva cullato con le sue melodie trasognate e incantato con la sua voce flautata.
Un album ispirato da una riflessione semplice ed immediata; che cosa diverremo? Egli stesso dichiara che la linea guida dell’album e l’idea del titolo gli sia venuta mentre era intento a soffiarsi il naso.“Mi stavo soffiando il naso in un kleenex e ho pensato: “Questo una volta era un albero. Allora mi sono rivolto idealmente a quell’albero e ho detto: Grazie per avermi lasciato soffiare il naso”. E non so se quell’albero sapeva che cosa sarebbe diventato un giorno, ma forse si. Nella quarta dimensione, dove il tempo è lineare, una cosa del genere potrebbe succedere”.

Forse ora che incide per una major Devendra perderà parte della sua originalità e della sua inconfondibile freschezza, ma soltanto le incisioni future ce lo sapranno rivelare.
A me piace ricordarlo così, come il magrissimo folk singer che alterna l’inglese allo spagnolo e mi trascina con sé in viaggi lisergici su spiagge frequentate da hippies, nudisti e surfisti di ogni età.
Per essere, almeno una volta nella vita, tutte queste cose insieme senza spostarmi da casa.
Disteso sul letto, in camera mia, le cuffie dell’ I-pod inserite e il catalogo di un tour operator, aperto casualmente sull’offerta di un viaggio in Messico. Regione Oaxaca, sulle coste del Pacifico, in primo piano una serie di istantanee della lunga spiaggia di Zipolite.

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11 Commenti

  1. conosco la musica di devendra dal lontano 2002 e da allora non lo ho mai lasciato
    ricordo ancora quando vidi il video di “little yellow spider”…questo strano personaggio con in testa le piume che portavano gli indiani d’america a ballare con gli amici.è un personaggio che sembra venire da un’altra epoca cosi come la sua musica che dire una canzone che porterò per sempre nel cuore perchè associata ad una situazione particolare.
    per quanto riguarda la sua evoluzione e il fatto che abbia deciso di collaborare con una major sicuramente non ha influito in alcun modo sulla sua musica

    ps giancarlo sriverà anche bene ma parte di ciò che ha sritto lo ha copiato pari pari da altri siti…

  2. Non è il mio genere comunque l’ascolto è abbastanza piacevole.. soprattutto i primi tempi, poi come la maggior parte degli artisti ha cominciato a evolversi in negativo, pubblicando musica mediata e commerciale per orecchi pigri -.-
    comunque ottima recensione!

  3. Grande Giancarlo, Zipolite (wikipedia) vuol dire spiaggia dellle anime o dei morti, e pare proprio essere un luogo particolare…. conosco poco di musica ma è bello il viaggio che mi hai fatto fare!
    Buona giornata
    Paolo Galli

  4. Bravo bel viaggio, l’unica cosa che mi piacerebbe e sapere la cronologia dei brani che metti per l’ascolto, in modo tale da capire l’evoluzione, se segui questo concetto, se diversamente metti dei brani significativi del personaggio, allora va bene così.

  5. Io Gianca ti leggo sempre, come del resto leggo sempre tutta la radio, ma ogni puntata tua mi sembra sempre in crescendo. Deve piacerti proprio tanto ciò che fai, altrimenti non mi spiego come faccia ad incollarmi al monitor.

  6. Ciao Gianca premetto che non sono un’intenditrice come te ma trovo originali le sue performance e movenze.
    la musica è varia e particolare.Non amo particolarmente questo tipo di musica ma lo trovo un personaggio che potrebbe aver futuro
    ciao
    giovanna

  7. Giancarlo, credo che chiunque ti abbia letto oggi sia “volato” con te fino alla spiaggia di Zipolite tra hippies e nudisti o si sia “trovato” tra gli avventori di quel sushi bar di San Francisco come testimone di una rissa.
    Voglio dire che le tue parole hanno il potere di trascinare il lettore “dentro” il mondo che racconti, se non come protagonisti, come veri testimoni…
    Complimenti!

  8. …ho paura che la purezza e spontaneità degli inizi sia ormai passato remoto, comunque nulla ci vieta di gocerci ciò che già ci ha dato.

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