di Henry David Thoreau (1817-1862)

Lucia Ferrati – voce recitante
Mario Mariani – pianoforte, oggetti

Lucia FerratiQuando scrissi le pagine che seguono – o meglio la maggior parte di esse –vivevo da solo, nei boschi, a un miglio di distanza dal più prossimo vicino, in una casa che m’ero costruito da me sulle rive del lago di Walden, a Concord, Massachusetts, e mi guadagnavo da vivere con il solo lavoro delle mie mani. Vissi colà per due anni e due mesi. Attualmente sono ritornato nel consorzio civile.

In una certa stagione della nostra vita, noi siamo soliti considerare ogni pezzo di terra come possibile luogo di dimora. A tale scopo, ho ispezionato la campagna da ogni parte, per un raggio di dodici miglia a partire dalla zona in cui vivo, e, l’una dopo l’altra, ho acquistato con l’immaginazione, tutte le fattorie là attorno…
Potevo vivere dovunque mi fermassi, e il paesaggio m’appariva amico dovunque, scoprii molti luoghi adatti per costruirvi una casa; qualcuno forse li avrebbe considerati troppo lontani dal villaggio, ma per me era il villaggio che era troppo lontano. Allora mi dicevo: “Potrei vivere là!”.

E per un’ora vi trascorrevo una vita, d’estate e d’inverno; vedevo come avrei potuto passarvi gli anni, affrontare la stagione fredda, veder giungere la primavera.
Mi bastava un pomeriggio per trasformare quella terra in un frutteto, un boschetto, un pascolo, e per decidere quali belle querce e quali bei pini si dovesse lasciare in piedi, davanti alla porta, e da dove ciascun albero potesse essere visto nel modo migliore; poi la lasciavo, anche incolta, poiché un uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno.

Quando per la prima volta mi stabilii nei boschi, vale a dire quando cominciai a passarvi i giorni e le notti, era, per caso, il 4 luglio 1845, cioè l’anniversario della Proclamazione d’Indipendenza.
La mia casa non era finita, ancora, perché vi potessi passare l’inverno; adesso era soltanto una difesa contro la pioggia, senza intonaco o camino, e le pareti erano di rozze tavole di legno, segnate dal tempo e con ampie fessure, cosicché la notte vi faceva freddo.

Gli stipiti, dritti e bianchi e appena tagliati, la porta appena piallata, e i telai delle finestre, le davano un carattere pulito e arioso, specialmente alla mattina, quando le tavole erano così gonfie di rugiada che immaginavo dovessero trasudare un dolce succo quando, a mezzogiorno, il sole le avrebbe asciugate.
I venti che passavano sopra la mia abitazione erano come quelli che sfiorano le sommità delle vette, portavano melodie interrotte o, forse solo i frammenti celesti, di una musica terrena.
Il vento mattutino soffia eternamente.
Il poema della creazione è continuo.
Ma poche sono le orecchie che riescono a udirlo.

Abitavo sulla sponda di un laghetto, in mezzo a un bosco che si estendeva tra Concord e Linconln.
Al sorgere del sole vedevo il laghetto togliersi la sua notturna veste di nebbia e qua e là, lentamente, apparivano, allora, le morbide increspature o la liscia superficie piena di riflessi, mentre la nebbia svaniva furtivamente nei boschi, in ogni direzione, simile a fantasmi che se ne andassero dopo qualche riunione notturna.
E ognii mattina era un gioioso invito a condurre la vita con la medesima semplicità e posso dire con la medesima innocenza della Natura.

Come i Greci, io sono quasi sempre stato un sincero adoratore dell’Aurora. Mi alzavo presto e mi bagnavo nel lago (atto religioso, questo, e una delle cose migliori che facessi).
Si dice che sulla vasca da bagno dell’Imperatore Tching-Tang fossero incisi gli ideogrammi corrispondenti a queste parole: “Rinnovati completamente ogni giorno. Fallo ancora e ancora, e ancora per sempre.”
È una massima che accetto.
La mattina ci riporta alle epoche eroiche.
Il sordo ronzio d’una zanzara che faceva il suo invisibile e inimmaginabile giro per la casa, al primo spuntare dell’alba, quando le finestre erano aperte e io stavo seduto presso la porta, mi provocava la stessa emozione che avrebbe potuto darmi lo squillo d’una tromba che avesse suonato per celebrare qualche gloria.
Era il requiem di Omero; essa stessa era un’Iliade e un’Odissea aerea, e cantava la propria ira e il proprio errare.
C’era qualcosa di cosmico in essa: un annuncio, che durerà finché non verrà proibito, dell’eterno vigore e dell’eterna fertilità dell’universo.

Dobbiamo imparare a risvegliarci e a mantenerci desti, con una infinita …speranza nell’alba, che non ci abbandona neppure nel sonno più profondo.
Non conosco nulla di più incoraggiante dell’incontestabile capacità dell’uomo di elevare la sua vita con uno sforzo cosciente.
È bello sapere dipingere un certo quadro, o scolpire una statua e così rendere belli alcuni oggetti; ma è ancora più degno di gloria scolpire e dipingere l’atmosfera stessa e il mezzo con il quale guardiamo, cosa che possiamo fare moralmente.
L’arte più degna è influire sulle qualità del giorno.
Ogni uomo ha il compito di rendere la sua vita, anche nei dettagli, degna della contemplazione delle sue opere più belle e più critiche.

Andai nei boschi perchè desideravo vivere con saggezza,
per affrontare solo i fatti essenziali della vita,
per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi.
E per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.
Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario.
Volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e rasoterra e mettere poi la vita in angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.
Se si fosse rivelata meschina, volevo trarne tutta la genuina meschinità, e mostrarne al mondo la bassezza.
Se invece fosse apparsa sublime, volevo conoscerla con l’esperienza.
Se vi piantate ben davanti alla realtà, vedrete il sole albeggiare su ambedue le sue superfici come se fosse una scimitarra, sentirete il suo dolce taglio spaccarvi il corpo tra cuore e midollo e così concluderete felicemente la vostra carriera mortale.
Morte o vita che sia, desideriamo soltanto la realtà.
Se davvero stiamo morendo, udiamoci il rantolo nella gola e sentiamo il gelo alle estremità; se invece siamo vivi, diamoci da fare.
Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca.
Vi bevo; ma mentre bevo ne scorgo il fondo sabbioso e vedo come sia poco profondo.
La corrente scorre via, ma l’eternità resta.
Vorrei bere profondamente e pescare nel cielo, il cui fondo è ciottoloso di stelle.
Ho sempre rimpianto di non essere saggio come il giorno che venni alla luce.

In quelle stagioni crebbi come il grano di notte.
Quel tempo non fu sottratto alla mia vita, ma mi veniva concesso in sovrappiù, oltre a quello che mi è usualmente elargito.
Capii cosa gli Orientali intendano per contemplazione e abbandono del lavoro.
Per la maggior parte, non mi curavo che le ore passassero.
Il giorno avanzava, era mattina e – guarda! Adesso è sera, e io non ho fatto nulla degno di nota; e sorridevo alla mia fortuna.
I miei giorni non erano spezzettati in ore, e turbati da ticchettio dell’orologio; perché vivevo come gli indiani che si dice che abbiano una sola parola per dire ieri, oggi, domani.
La mia vita era divenuta il mio divertimento, e non cessava mai d’essere nuova.
Accudire alle faccende di casa era, per me, un passatempo piacevole.
La mia casa era sul fianco della collina, in mezzo a una foresta di giovani pini resinosi e noci, vicino al lago.
Nel mio cortile crescevano le fragole, le more, l’erica, un ciliegio, mirtilli e tartufi.
Il sambuco cresceva lussureggiante attorno alla casa. Le sue grosse gemme spuntavano all’improvviso e si aprivano in graziosi rami teneri e verdi.
Le grandi masse di bacche che quando erano in fiore avevano attirato le api selvatiche, diventavano gradatamente di un viola scintillante e vellutato. Mentre guardo, in questo pomeriggio estivo, i falchi volano in tondo sopra la mia radura; le grida dei piccioni selvatici danno voce all’aria; una martora scivola fuori dalla palude, davanti alla mia porta e afferra una rana.
E io sento: ecco, la vita.

Un fanello si costruì subito il nido nella mia baracca, e un pettirosso cercò riparo in un pino che cresceva contro la casa.
A giugno, la pernice, che è un uccello tanto timido, lasciava i suoi pulcini passare sotto la mia finestra, dai boschi dietro la casa fino sul davanti, chiocciando e chiamandoli, come una gallina; e con il suo comportamento dimostrava di essere davvero la gallina dei boschi.
Le pernici giovani si disperdevano improvvisamente, quando mi avvicinavo, obbedienti al segnale della madre, e allora sembrava che un turbine di vento le spazzasse via.
Assomigliano alle foglie e ai rami secchi con tanta esattezza, che più d’un viaggiatore ha messo il suo piede proprio in mezzo a una covata, e ha udito il grido della madre che starnazzava volando via, e poi i suoi ansiosi richiami e il suo pigolìo; oppure l’ha vista che strascinava le ali per attirare la sua attenzione, dimodoché egli non sospettasse la vicinanza degli altri uccelli.
Altre volte ancora, essa turbina e vola in tondo, di fronte al passante, in tale maniera che, per qualche momento, non si riesce a capire che creatura essa sia.
I suoi pulcini intanto si acquattano immoti e piatti, spesso spingendo le teste sotto una foglia, e ascoltano solo gli ordini che la madre dà loro, da lontano; né fuggiranno ancora, tradendosi, al vostro avvicinarsi.
Si può persino tenere gli occhi su di essi per un minuto o due, senza però scoprirli.
Me li sono tenuti sul palmo della mano, in una simile occasione, e sempre la loro sola preoccupazione, obbedienti alla madre e all’istinto, era di acquattarsi anche là, senza paura o timore.
Tanto perfetto è questo istinto, che una volta, dopo che li ebbi riposti sulle foglie, e uno, accidentalmente, cadde su di un fianco, lo ritrovai dieci minuti dopo, con gli altri, esattamente nella stessa posizione di prima.
Le pernici giovani sono implumi come la maggior parte degli uccelli appena nati, anzi sono sviluppate più perfettamente (e sono più precoci) persino delle galline.
I loro occhi, aperti e sereni, hanno un’espressione notevolmente adulta, e però innocente – e sono indimenticabili.
Ogni forma di intelligenza sembra che lì si rifletta.
Suggeriscono non solo la purezza dell’infanzia, ma una saggezza chiarita dall’esperienza.
Un simile occhio non nacque quando nacque la pernice – ma è coevo al cielo che riflette.
I boschi non producono un’altra simile gemma.
Il viaggiatore non guarda tanto spesso in un pozzo tanto limpido.
Il cacciatore, ignorante o incauto, spesso uccide la madre, in quest’epoca, e lascia che questi innocenti cadano sotto le unghie di qualche uccello o qualche bestia in cerca di preda – o che si mescolino gradualmente con le foglie che stanno marcendo e alle quali tanto assomigliano.
E’ degno di nota quante creature vivano libere e selvagge, sebbene nascoste nei boschi, e riescano a vivere ancora, nelle vicinanze delle città, sospettate d’esistere solo dai cacciatori.
Guardate la lontra, che riesce a vivere qui, tanto nascosta! cresce fino a diventare lunga quattro piedi, e grossa come un ragazzetto, forse senza che nessun essere umano mai la veda.
Dapprima vidi il tasso, nei boschi dietro casa, e probabilmente ancora udivo le sue grida durante la notte.
Di solito, a mezzogiorno, dopo avere lavorato nell’orto, mi riposavo all’ombra per un’ora o due, e consumavo il mio pranzo, leggendo un poco presso una sorgente, da cui nascevano una palude e un ruscello.
Là, in un luogo molto appartato e ombroso, sotto un pino bianco che si allargava con i rami, c’era ancora una zona erbosa, solida e pulita, su cui ci si poteva sedere.
Avevo scavato la sorgente e fatto un pozzo di limpida acqua color piombo, dove potevo attingere un secchio pieno senza intorbidirla, e vi andavo quasi ogni giorno, a metà estate, quando il lago era molto caldo.
Anche la beccaccia conduceva là la sua covata a cercare vermi nel fango, e volava giù dall’argine a solo un piede d’altezza sopra i suoi nati, mentre questi correvano sotto, in una lunga fila.
Ma alla fine, vedendomi, la madre lasciava i propri pulcini e mi volava attorno, sempre più attorno e sempre più da presso, sino a quattro o cinque piedi di distanza; fingeva di avere le ali o le zampe spezzate, per attirare la mia attenzione, e mettere così in salvo la covata; la quale aveva già ripreso la sua marcia con un debole, metallico pigolìo, in fila indiana, come la madre aveva ordinato.
Anche le tortore venivano alla sorgente, svolazzavano di ramo in ramo, sui morbidi pini bianchi, sopra la mia testa; e lo scoiattolo rosso, che scendeva di corsa dal ramo più vicino, era particolarmente familiare e curioso.
Si aveva solo da stare seduti abbastanza a lungo, in qualche bella zona dei boschi, e allora, l’uno dopo l’altro, tutti gli abitanti selvatici si mostravano.

Di notte, quando gli altri uccelli sono silenti, le civette contrabbandano le loro melodie come donne a lutto che ripetano il loro antico lamento……come fossero una solennissima nenia funeraria, la mutua consolazione degli amanti suicidi… i rimpianti e i sospiri che si compiacessero di essere cantati.
Anche il gufo mi faceva la sua serenata. Da vicino poteva sembrare il più triste suono della natura.
Ma in verità, per la maggior parte suggeriva soltanto ricordi piacevoli, uditi di giorno e di notte, d’estate o d’inverno.
Sono felice che esitano i gufi.
E’ un suono meravigliosamente adatto alla palude e ai boschi crepuscolari e suggerisce l’esistenza di una natura vasta e inesplorata che gli uomini non hanno riconosciuto.
E’ una di quelle serate deliziose in cui tutto il corpo è un solo senso, e inspira felicità attraverso ogni poro.
Vado e vengo nella Natura con una strana libertà e sono parte di essa

Avevo tre sedie in casa mia: una per la solitudine, due per l’amicizia e tre per la compagnia.
Mentre vivevo nei boschi ebbi più visitatori di quanti ne abbia avuti mai in qualsiasi altro periodo della mia vita…
Uomini di quasi ogni grado di intelligenza venivano a trovarmi nella stagione migratoria.
Alcuni avevano più discernimento di quanto non sapessero usarlo.
Venivano anche uomini con una sola idea in testa, come galline con un solo pollastro ancora pulcino, oppure uomini con mille idee e la testa spettinata, simili a quelle galline che devono badare a cento pulcini.
Non potevo non notare alcune peculiarità dei miei visitatori.
In genere, le ragazze, i ragazzi e le giovani donne parevano felici di trovarsi nei boschi. Guardavano i fiori, il lago e approfittavano del loro tempo.
Gli uomini d’affari, persino i contadini, pensavano solo alla solitudine, all’impiego di essa, alla grande distanza cui abitavo da questo o da quello, e sebbene dicessero che ogni tanto amavano passeggiare per i boschi, era chiaro che mentivano.
Certe inquiete padrone di casa andavano a spiare nella mia credenza e nel mio letto quando ero assente (come mai, altrimenti, arrivò la Signora Tal dei Tali a sapere che le mie lenzuola non erano pulite come le sue?).
I vecchi, i malati, i timidi di qualunque età o sesso, pensavano soprattutto alle malattie, a disgrazie improvvise, o alla morte.
A loro, la vita pareva piena di pericoli ed erano dell’avviso che un uomo prudente sceglierebbe attentamente la posizione più sicura dove il dottor X possa essere a portata di mano, alla prima chiamata.
Avevo anche ospiti più allegri di questi ultimi: i bambini che venivano a raccogliere bacche, i ferrovieri che con la camicia pulita facevano la loro passeggiata la domenica mattina, i poeti e i filosofi…
In breve, tutti gli onesti pellegrini che venivano nei boschi per amore di libertà…

Perdersi nei boschi, in qualsiasi momento, è un’esperienza sorprendente e memorabile, e insieme preziosa.
Spesso, anche di giorno, durante una tempesta di neve, può accadere di arrivare ad una strada ben nota, e però di non riuscire a sapere da che parte si trovi il villaggio.
Sebbene si sappia che per quella strada si è passati un migliaio di volte, non si riesce a riconoscere in essa nulla di familiare.
E’ solo quando ci siamo completamente perduti che apprezziamo la vastità e la singolarità della Natura.
Ogni uomo deve imparare da capo le direzioni della bussola, ogni volta che si risveglia sia dal sonno che da qualsiasi astrazione.
Solo quando ci siamo perduti – in altre parole, solo quando abbiamo perduto il mondo – cominciamo a trovare noi stessi, e a capire dove siamo, e l’infinita ampiezza delle nostre relazioni.

Persino in questo paese relativamente libero, gli uomini, nella maggior parte (per pura ignoranza ed errore), sono così presi dalle false preoccupazioni e dai più superflui e grossolani lavori per la vita, che non possono cogliere i frutti più saporiti che questa offre loro: le fatiche eccessive cui si sottopongono hanno reso le loro dita troppo impacciate e tremanti.
In effetti, un uomo che lavori duramente non ha abbastanza tempo per conservare giorno per giorno la propria vera integrità: non può permettersi di mantenere con gli altri uomini i più nobili rapporti, perchè il suo lavoro sarebbe deprezzato sul mercato; ha tempo solo per essere una macchina … Le qualità migliori della natura umana, come i fiori in boccio, si possono conservare solo avendone la massima cura.
Eppure noi non trattiamo né noi stessi né gli altri con tanta tenerezza.
Datemi la verità, invece che amore, danaro o fama.
Sedetti a una tavola imbandita di cibo ricco, vino abbondante e servi ossequiosi, ma alla quale mancavano la sincerità e la verità; partii affamato da quel desco inospitale.
L’ospitalità era fredda come i gelati.

Io lasciai i boschi per una ragione altrettanto buona di quella per cui mi ci ero stabilito.
Forse mi pareva d’avere altre vite da vivere, e di non potere dedicare altro tempo a quella sola. …
Imparai questo, almeno, dal mio esperimento: che se uno avanza fiducioso nella direzione dei suoi sogni, e cerca di vivere la vita che s’è immaginato, incontrerà un inatteso successo nelle ore comuni.

Si lascerà qualcosa alle spalle, passerà un confine invisibile; leggi nuove, universali e più libere cominceranno a stabilirsi dentro e intorno a lui; oppure le leggi vecchie saranno estese e interpretate in suo favore in senso più ampio.

In proporzione a quanto egli semplifica la sua vita, le leggi dell’universo gli appariranno meno complesse e la solitudine non sarà tale, né la povertà sarà povertà, né la debolezza debolezza.
Se avete costruito castelli in aria, il vostro lavoro non deve andare perduto; è quello il luogo dove devono essere.

Ora il vostro compito è di costruire a quei castelli le fondamenta.

1 commento

  1. Complimenti Lucia …
    Ottima dizione,buona interpretazione …
    Ho una grande passione per Thoreau e per Walden … sono un Attore di Teatro e cercavo appunto un attrice che mi affiancasse nel Reading ” Walden vita nei boschi ”
    Io vivo in Sicilia … SENTIAMOCI … GRAZIE

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