Ogni lunedì leggiamo, analizziamo, commentiamo i fatti di cronaca e i grandi temi dell’attualità politica e sociale con un “editoriale”, o meglio una “distorsione”, facendo parlare una canzone, un autore o un album.
Abbiamo, noi giornalisti, chiamato primavera araba una lunga stagione che è andata ben oltre i mesi del cambiamento di clima fra l’inverno e l’estate e che avrebbe dovuto portare tanti paesi islamici a una maggiore vicinanza all’occidente, non tanto per essere “conquistati”, ma per costruire assieme, finalmente, quella base per la pace internazionale che è ancora ben lontana dal realizzarsi. La primavera araba doveva significare democrazia, anzi: una realizzazione veloce della democrazia; ma è fallita e questo ci sentiamo di dirlo nonostante, ad esempio, l’Egitto plauda alla elezione di Morsi dopo sessant’anni di militari, o la Libia festeggi la caduta del dittatore Gheddafi.
Ma proprio in Egitto ci sono chiari segnali della incompletezza della “rivoluzione” democratica. I militari per ora non vogliono lasciare il potere legislativo, hanno sciolto il parlamento, hanno intimato che il ministro della Difesa sia Tantawi, comandante supremo delle Forze armate. Come dire: continuiamo a governare noi, il presidente Morsi è un presidente dimezzato. Lui continua a fidarsi della piazza. Davanti al Museo Egizio, Tahrir, che guarda caso vuol dire rivoluzione, è proprio il luogo deputato a quella che i suoi seguaci chiamano “la rivoluzione senza fine”, che sarà continua fino a quando non ci sarà un nuovo parlamento e fino a quando i militari non smetteranno di volere giudicare i civili secondo la propria legge. Dal canto suo, Morsi sta giocando al gatto e il topo: allarga l’orizzonte verso gli Usa e Israele (ha bisogno di soldi e promette di mantenere accordi di pace coi sionisti che non approva), ma tende la mano all’Iran considerandolo il primo paese amico. Dovrà decidere quale cammino percorrere per diventare davvero il dopo Mubarak. In passato, fece una lotta alla corruzione (e infatti non fu rieletto in parlamento), ma chi pensa che i Fratelli musulmani tutto sommato siano un pericolo e che comunque la sharia è una legge contraria al senso profondo di giustizia, è pronto a prenderlo di mira.
Dicevamo della Libia, che sembra ormai cosa lontana, dove si voterà il 7 luglio, se la commissione elettorale darà il placet, ma anche la Tunisia, la cui svolta sembrava più radicale, è ricaduta nel pantano islamico che rischia di farla di nuovo richiudere in se stessa. Come la Siria, in questi giorni monitorata dall’Onu, ma dove Assad non vuole cedere di un millimetro e della pluralità delle opinioni non gli interessa nulla. Meglio i morti e la guerra civile che la civile convivenza. Con Usa e Russia che non sanno come togliere le castagne dal fuoco e il povero Kofi Annan disarmato e costretto a cedere agli uomini del partito baath che faranno parte del consiglio di transizione.
Ogni luogo dal Maghreb all’Oriente ha vissuto e vive momenti insanguinati, brutti, drammatici; in Siria donne e bambini sono indifesi, muoiono o si accalcano alle frontiere di Libano e Turchia, sapendo bene che la loro primavera è inguaribilmente finita in un profondo inverno di sconforto, il discontento shakespeariano che ritorna come ai tempi dei secoli bui, quando la democrazia, almeno, non sapevano che cosa volesse dire. E che anche in questo secolo nuovo rimarrà irrealizzabile in tante parti del mondo, principalmente la riforma che non è sbocciata: la rivendicazione dei diritti dell’individuo contro il valore dell’unità della comunitià dei credenti che ha sempre ispirato l’Islam.
Come condire musicalmente questi eventi? Ho pensato a una «primavera» di tanti anni fa, quella di Praga che si rivoltò alle truppe sovietiche. Che sia di buon auspicio.
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Riccardo Iannello
Il prossimo appuntamento con Distorsioni sarà il 9 luglio