Un solo abbraccio è il quarto passo alla scoperta della Grande Mela davanti a un’improbabile tazza di caffè.

NYC, 2/7/2012

Un solo abbraccio

L’afa soffocante di metà luglio sembra non volermi concedere più tregua. Mi arrendo, avanzo lungo Broadway attendendo il momento in cui mi scioglierò esamine nel marciapiede e assumerò le sembianze di una pozzanghera di sudore.
Non respiro, cerco disperatamente di inalare il poco ossigeno rimasto in tutta la città, mettendo tra l’altro a dura prova il mio olfatto che è sul punto di un collasso sensoriale: lo smog dei taxi che sfrecciano impazziti è denso e corposo tanto da poterlo tagliare con un coltello, la puzza di fritto e di bruciato delle bancarelle ambulanti si fonde inesorabilmente con quella degli hot dog e dei Big Mac circostanti, ogni spigolo è segnato da odori aspri non ben identificati e montagne di immondizia abbandonate sui portoni di casa uccidono ogni sentimento.
A peggiorare la situazione ci pensa l’enorme distesa di cemento delle strade che riflette il calore torrido del sole meridiano, lo scarico dei condizionatori installati rigorosamente in ogni finestra, l’effetto cappa dei grattacieli nonché l’effetto Betlemme della calca di gente che avanza a colpi di ascella. Insomma, sono all’inferno.
Ed eccomi finalmente arrancare a stento Wall Street: il tempio sacro dell’economia capitalista moderna. Detta così chissà cosa penserete, in realtà ogni volta che attraverso questa strada rimango deluso. Cerco di consolarmi con un po’ di immaginazione: mi vedo prendere parte all’occupazione in fiamme, attorniato da una folla di manifestanti carichi di speranza, rivoluzione e ideologie.
Ma quando apro gli occhi non c’è più nulla di tutto questo, vedo solo una manciata di turisti giapponesi che si fotografano abbracciati a George Washington o alle spalle di un’enorme bandiera americana che grida il suo irriducibile desiderio di onnipotenza – e mi chiedo dove siano finiti quei cartelloni e quelle scritte di protesta che sventolavano in cielo.
Decido di sedermi su una gradinata, ad aspettare. Formulo tra me e me una teoria, o meglio un pensiero che appunto sul taccuino: tutti i mostruosi palazzi che sovrastano Wall Street sono solo delle caramelle.
Scusate, ora vi spiego. Ho scoperto che c’è qualcosa che in comune tra me e quei giapponesi di cui vi parlavo, nonostante qui non succeda nulla di particolarmente interessante tutti desideriamo dedicare il nostro tempo libero a questa strada, ai piedi di questi grattacieli che sembrano veramente grattare il cielo. Le nostre facce attonite contemplano il triste teatro del nulla e senza fare nulla ci compiacciamo della nostra presenza in questo luogo nullo. Qui risiede una forza inquietante che sfugge alla nostra ragione: è la potenza dell’involucro, è l’impatto di un’esteriorità che mostra contenuti inaccessibili, è il fascino indiscreto dell’apparenza – proprio come una caramella tutta colorata, impossibile poterla rifiutare. Non potremo mai sapere cosa succede all’interno degli uffici di Wall Street ma la sola vista esterna di quelle facciate ci conforta e ci rende consapevoli che qualcosa più grande di noi sta tramando alle nostre spalle – proprio come uno zuccherino che piano piano scava le nostre gengive a dispetto del nostro esilarante piacere.
Meglio non pensarci troppo, alzo lo sguardo e mi lascio sedurre da un gruppo di persone infondo alla strada. Sta succedendo qualcosa di strano – come mio solito, vado a cacciarci il naso.
Da un angolo nascosto parte un robusto elastico colore rosso, si allunga una decina di metri e si slancia in mezzo alla strada, qui è legata una donna che abbandona tutto il suo peso alla forza elastica del nastro.

La donna è immobile, il suo sguardo è assente. Non parla. I suoi occhi si gettano nel mezzo della via e cercano indulgenti gli occhi dei passanti. Ed ecco che penetrano pure i miei e non mi si staccano più di dosso – mi hanno catturato. Inaspettatamente a mani aperte la donna apre le sue braccia e dichiara la sua intenzione di volermi abbracciare. Non desisto, non ho scampo e ormai non posso più fuggire, sono fregato – l’abbraccio.
In un primo momento non capisco, penso che sia un miraggio dovuto al calore desertico che pervade New York, poi tutto è chiaro. Vessna è un artista e questa è la sua opera d’arte.
Vessna in silenzio sta manifestando il suo essere al mondo, il suo essere a Wall Street.
Il gesto di Vessna è tanto piccolo quanto grande, un abbraccio, nulla di più semplice e di più significativo al medesimo tempo. È il gesto più genuino per dimostrare uno stato di affetto umano di qualunque tipo, è un’effusione che ci concilia armoniosamente con un altro pezzo di mondo. È un gesto corporeo, fisico, puramente materico ma anche astratto e simbolico.
Esistono perfino delle teorie scientifiche secondo le quali un abbraccio possiede degli effetti benefici a livello fisiologico, come il rilassamento muscolare e l’abbasso della pressione sanguigna.

Un abbraccio è un linguaggio universale che appartiene a tutto il genere umano, attraversa tutte le culture, le usanze e le religioni. È un’intimità spaziale, è un avvicinamento. Distrugge le barriere del nostro ego, abbatte le paure e le diffidenze.
In una realtà disumanizzante come quella di New York, dove ogni contatto è una minaccia, ogni vicinanza è sinonimo di competizione e rivalità, dove il proprio territorio e la propria privacy sono sacralità inviolabili da custodire gelosamente al sicuro da ogni possibile invasione, Vessna abbraccia indistintamente ogni cosa che le passa davanti.
Vessna abbandona il suo corpo a Wall Street, da una parte si affida ai passanti e dall’altra all’architettura che la sostiene, grazie a quel gigantesco elastico rosso.
Vessna è una bilancia. È in equilibrio tra le sue emozioni e la fisicità di New York, è un tutt’uno con l’ambiente che la circonda, fonde il suo essere con la città, con i cittadini.
Vessna vive in Canada ed è appena arrivata nella grande mela. Le chiedo cosa prova durante la performance, lei mi spiega che vuole affidarsi totalmente alla città che l’ha appena accolta.
Sta giocando un ruolo ben preciso, senza allontanarsi troppo dalla sua umanità. Vessna è un’attrice di se stessa e sta mettendo in scena la sua unione spirituale con New York.

Vessna espone le sue fragilità, le sue origini, la sua femminilità. Mi dice che questa è un’opera portatile, è sempre con lei, non ha peso e non ha bisogno di nessuna valigia, può mostrarla dove e quando vuole. Una leggerezza che identifica il suo carattere nomade, in perpetua transizione.
L’opera trova le sue radici in Serbia e si dirama in ogni possibile angolo di mondo, di volta in volta evolve, muta inevitabilmente a seconda di dove si trova, ma soprattutto di chi incontra. Chissà, magari un giorno capiterà anche a voi di incontrare Vessna.
Me ne vado, ancora abbracciato a Vessna. Mi avvio verso il Pier 17, dovrei essere ancora in tempo per il tramonto…

Carlo Cecconi

Biografia:
Vessna Perunovich vive a Toronto. I suoi lavori, di matrice concettuale, sono autobiografici. La sua ricerca fonde emotività e materia utilizzando vari medium artistici, quali la scultura, la pittura, il video e la performance.
Perunovich ha partecipato a diverse Biennali internazionali (Cuba, Albania, Inghilterra, Portogallo, Yugoslavia e Grecia) e ha preso parte a varie residenze (Berlino, Bursa, Banff e New York), inoltre è la direttrice artistica del festival multimediale FAT (Fashion Art Toronto).
www.vessnaperunovich.com

 

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