Convivium è il terzo passo alla scoperta della Grande Mela davanti a un’improbabile tazza di caffè.

NYC, 27/6/2012

Convivium

L’incontro fissato con Per è alle 2pm al Tompkins Square Park. Nel programma di oggi c’era una sua performance al Jardin Del Paraiso, ma purtroppo è saltata causa mal tempo e mi devo accontentare di poter solo scambiare due parole con lui.
Mi trovo nell’East Village, un quartiere che definirei allegro ma non troppo.
Stranamente sono in anticipo, così decido di perlustrare la zona in compagnia di un po’ di musica. Ripesco dal vecchio repertorio adolescenziale Last Caress dei Misfits e me la sparo a volumi insostenibili sia ai miei timpani sia ai miei poveri auricolari.
È strano notare come le canzoni possano vestire i luoghi in cui ci si trova, riescono perfino a sorprendermi quando si affinano perfettamente con certe atmosfere e abbracciano le situazioni che mi trovo di fronte. Mentre cammino ho la sensazione di trovarmi all’interno di un videoclip.
Il cielo è completamente grigio e una pioggia sottile picchetta le pozzanghere nell’asfalto. Affianco delle alte murate in mattoncini rossi coperte da scritte illeggibili e dipinti confusi; poi mi ritrovo in Loisaida Avenue che scopro essere territorio dei Nuyorican – ovvero i Portoricani nati a Nueva York che rimpiangono la loro terra d’origine nonostante che non ci abbiamo mai messo piede.
L’East Village è al tempo stesso leggero e ignorante, spensierato e conturbante, tranquillo e spietato, dinamico e travolgente, esattamente come quel pezzo che mi sta perforando le orecchie.
Trovo particolarmente intrigante il piacere di perdersi tra queste strade, mi lascio attirare dalla miriade dei piccoli giardinetti disseminati tra i palazzi: alcuni lasciati al triste destino delle erbacce e immondizie, altri decorati da mosaici, sculture e simpatici ornamenti.
Negli anni ’60 l’East Village è stata la culla degli Hippie, e ancora si possono sentire i loro richiami, le forme, i colori, ma anche i loro odori…
Artisti, musicisti e letterati si sono spostati in massa da queste parti durante quel magico decennio, probabilmente attratti dai bassi prezzi degli affitti e dalla nascente scena Beatnik – che si ispirava alle chiacchiere tra Kerouac, Ginsberg e Burroughs nei bar del vicino Greenwich Village. Ma l’East Village è stata anche la patria del punk-rock newyorkese, delle proteste, delle rivolte e dei movimenti contro-culturali, che hanno inconsapevolmente dato vita a una rigenerazione urbana e un inaspettato sviluppo economico che oggi viene definito con il termine gentrificazione – in riferimento al valore acquisito grazie al solo immaginario cool che questi luoghi si portano appresso.
Sono passate le 2pm e mi rincammino verso Tompkins – presumibilmente, in ritardo. All’entrata del parco vedo un tipetto buffo tutto quadrettato che scruta i passanti; tutti eccetto me. – Dev’essere Per -, mi avvicino e gli faccio un cenno un po’ goffo. – Sì, è lui.
Finite ogni convenevole presentazione il boato di un tuono apocalittico battezza l’inizio del diluvio universale. Così ci rifugiamo nel posto più vicino, un ristorante messicano.
Mobile-Kitchen-Cart è l’opera che Per si porta a spasso per New York City, lunedì mattina mi è capitato sottomano il suo comunicato stampa e mi sono fiondato alla sua ricerca, fortunatamente sono riuscito a contattarlo poco prima del suo ritorno in Europa.


Mobile-Kitchen-Cart non è altro che un carretto ambulante costruito con pezzi di scarto, è un cassone di legno montato su tre ruote di bicicletta con attaccato un manico con il quale trasportarlo. Giorno dopo giorno Per percorre una tratta di New York, attraversa isolati, ponti, parchi, quartieri, poi posteggia il carretto in una delle sue tappe prefissate e inizia la performance: in un batter d’occhio Mobile-Kitchen-Cart si trasforma magicamente in una cucina, il ripiano superiore si allunga tre volte tanto la sua superficie, escono fuori piatti, posate, bicchieri, pentole, fornetti e fornelli. Quell’inutile trabiccolo sbilenco diventa il centro dell’attenzione di tutto il vicinato, tutti accorrono perplessi a vedere che diavolo succede.
Inizia la festa, ognuno collabora come può per cucinare qualcosa assieme, c’è chi corre a casa a prendere un pacco di pasta, chi raccoglie dall’orto un paio di pomodori, chi va al supermercato a prendere una cassa di birre. È sorprendente come la semplicità del gesto offerto da Per riesce a rendere felici le persone, lo trovo geniale.
Per cerca la condivisione di un’esperienza, desidera coinvolgere le persone del luogo, poter conoscerle, far amicizia con loro, poter vederle unite e spartire un pasto con loro.
L’idea del carretto mi sembra un ottimo modo per esplorare New York, sia dal punto di vista urbano sia da quello sociale. Credo che ogni tanto New York abbia bisogno di qualche gesto totalmente gratuito, anzi credo che forse l’arte in generale abbia proprio bisogno di questo.
La semplicità di Per mi commuove e il paradosso che crea con la città emblema del capitalismo è disarmante.
La Mobile-Kitchen-Cart plasma quella che Beuys avrebbe chiamato una scultura sociale – un’opera capace di dare avvio a piccoli cambiamenti al modo di percepire il mondo, un’opera capace di riflettere sul valore di un’azione banale e quotidiana.

L’atto stesso di condividere il cibo con la comunità ha origini ancestrali e porta con sé una serie di significati simbolici che fanno parte della cultura dell’uomo. I latini usavano il termine convivium per indicare un banchetto, un simposio; il mangiare diventava una cerimonia di canti, conversazioni, poesie, giochi, danze, intrattenimenti, eros. Il convivio, – da cum vivere, ovvero vivere assieme – unisce il cibo alla vita, è un elogio ai piaceri del mondo, è una metafora dell’esistenza umana.
Tutto ciò lo penso soltanto, evito parentesi intellettualoidi che rischiano di protrarsi all’infinito e mi limito a dirgli una stupidaggine delle mie che in fondo ha lo stesso significato: – You know, in Italy we have this manner to say “Chi non mangia in compagnia è un ladro o una spia”.
Lui si piega dalle risate, io mi accorgo che capisce l’italiano. La prima cosa che fa è srotolare il tovagliolo unto del suo burrito e appuntare la frase con una penna appena fregata al cameriere. Dice che ne terrà conto.
Il mio amico Per si sposta per la città con la sua cucina nomade assieme a un altro artista che si chiama Malte. Sono entrambi tedeschi e ormai il loro tour newyorkese è giunto al termine, la prossima settimana saranno di nuovo a Berlino. In un modo o nell’altro vogliono portarsi a casa il carretto e magari ripetere la cosa in un’altra città, tipo a Hong Kong o così.


Poi è lui a intervistare me. Mi chiede di dove sono, io rispondo timidamente: – Pesaro… – balza dalla sedia: – Pesaro! – alza la coppola, avanza verso di me e mi indica una grossa cicatrice in mezzo alla sua fronte. Esclama: – Made in Pesaro.
Un giorno, quando aveva circa la mia età, decise di scalare il campanile di una chiesetta dell’entroterra pesarese; a quanto pare l’impresa non riuscì a dovere. Non sono mai riuscito a capire quale chiesa sia stata, ma dalle sue parole e valutando il suo gesto eroico credo che gli piacesse proprio tanto.
Piccolo il mondo.
Mi racconta che ha passato parecchio tempo in Italia per imparare da un fabbro la tecnica del ferro battuto. A un tratto si blocca, improvvisamente è colto da un lapsus fulmineo, mi chiede se conosco Annamaria. – Grande Per, bella domanda!
L’unica cosa che posso fare è lanciare un appello a tutte le lettrici che si chiamano Annamaria che hanno avuto il piacere di conoscere un artista/scalatore di chiese di nome Per, la speranza è l’ultima a morire…
Ecco, questo è tutto quello che vi voglio raccontare su Per. Probabilmente potrei dirvi quello che ci siamo poi detti a proposito di come il suo lavoro sia stato influenzato da artisti del calibro di Tiravanija o Gordon Matta-Clark, oppure potrei parlarvi dell’arte relazionale di Bourriaud o del valore dell’arte sociale, del Guerrilla Gardening, eccetra eccetra. Ma ora non ne ho voglia e rischierei di annoiare sia voi sia me.
New York è riuscita a sorprendermi un’altra volta, mi ha regalato una nuova perla da custodire preziosamente nella mia valigia e già sento che un giorno mi mancheranno tutti questi strani personaggi che la popolano.

Carlo Cecconi

 

Biografia:
Per Schumann è nato nel 1967. Ha studiato all’Academy of Fine Arts di Amburgo (HfbK) con Bogomir Ecker e dal 2003 in collaborazione con Malte Zacharias lavora a Berlino nel Gartenstudio, una galleria che da vita a sculture e performance di carattere sociale e ambientale.
Le ultime mostre cui ha partecipato sono: Shadow + Sunlight (The East West Project, Berlino), Mind the Gap (Gallery Homeland, Portland), Floating Volumes  (Gallery 5533, Istanbul), Täglich frische Kräuter (Gallery Multiple Box, Amburgo).
www.perschumann.de
mobile-kitchen-cart.net

 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui