Esiste un dibattito da una ventina d’anni a questa parte in Italia che ogni tanto riaffiora. E’ quello che vede a confronto due visioni del mondo, da un lato quella di chi vede il procedere del tempo come lineare, un’avanzare inarrestabile del tempo e con esso del progresso dell’umanità. Col passare degli anni dei secoli, nel suo complesso, l’umanità non può che stare sempre meglio.
L’altra, più critica, si interroga sull’effettiva linearità di questo procedere.
Il fluire carsico di questo annoso dibattito si è fatto, smagliante, tumultuoso e del tutto in vista ieri quando – dopo anni dall’ultima volta che era capitato – ho dato un’occhiata alle classifiche di vendita dei libri.
Questa settimana è in testa “Benvenuti nella mia cucina” di Cristina Parodi, al 7° posto c’è “Cotto e mangiato” di Cristina Parodi, all’8° “Le ricette di casa Clerici” di Antonella Clerici.
Ce n’é di che alimentare il dibattito.
p.s. Mi scuso con Mariangela Lecci, nostra autrice della rubrica Re-esistere con un libro se ho un po’ invaso il suo territorio!
Pereira
@Pereira
Grazie di cuore,speriamo di vederci prima o poi.
Ultimamente ho dovuto sperimentare, sulla mia salute,l’ottima perfomance dell’H Santa Croce di Fano (reparto otorino). Ne ho fino al 10 1 2011 prossimo e poco oltre. Poi scenderò a Pesaro.
A proposito del concetto di tempo-evento guarda cosa sta accadendo da voi.
L’urbanistica selvaggia non ha più benzina sul residenziale privato e vogliono alimentarla con una mega opera pubblica , appunto un nuovo ospeodale.
I vari ospedali territoriali investono ingenti risorse,soprattutto di umana buona volontà, su se stessi, per migliorarsi, e questi parlano di ospedale unico.
Allo stesso modo spingono tutti per la bufala del porto artificiale di Pesaro (ieri consiglio monotematico addirittura).
E’ del tutto evidente che non comprendono il tempo-evento ma ne sono assolutamente soverchiati.
E’ una cosa vergognosa.
@ Signor Gaioing
la ringrazio, per l’ennesima volta succede che io liberi dai consumati neuroni superstiti idee senili, spesso vaghe e solo intuite e lei mi soccorre e sostiene con argomentazioni solide, robuste, fisicamente numeriche. Quasi un socio.
Obrigado
@Pereira
Premetto che Mirko Fabbri mi ha schiantato e me lo devo rileggere con calma!
Ma a me è rimasta impressa l’osservazione-domanda di Pereira ” …linearità o non linearità del ns procedere..”
Innanzi tutto il tempo, in se stesso,è lineare per questioni di degrado entropico, mentre il tempo-evento è ciclico.
Ora a mio parere siamo nel regresso della cultura editoriale, segnato inesorabilmente dalla necessità di commercializzare ad ogni costo e stiamo andando nel punto più basso del ciclo.
La prova più evidente di ciò è che in Italia siamo a livello del 71% di semianalfabeti (ricerca di DeMauro).
Se supereremo l’attuale modello commercial la gente leggerà di più e meglio e la cultura editoriale aumenterà molto di livello e arriverà ai punti più alti del ciclo.
Per me l’attuale livello , medio, dei libri non vale il loro costo (complice anche l’euro-Merkel) e legge solo il 29% ( i non semi-analfabeti).
Sta per arrivare l’ e-book , ma riuscirà a sfondare e ad abbassare i prezzi e a diventare un vero strumento di diffusione di massa, facendo salire il livello culturale del paese ? O comunque ci vuole ben altro che l’e-book? Vedo molta contraddizione nel fatto che la tecnologia aumenti molto di livello e la cultura media del paese no !
Per me stiamo correndo troppo e quando il tempo-evento corre in fretta , le cadute rovinose sono dietro l’angolo, questa nostra era è troppo volatile!
Non a caso Roberto Vacca già nel ’76 scriveva un saggio illuminante dal titolo “Il Medio Evo prossimo venturo”.
Pereira ne ha facoltà! Per sua natura, non invade e non prevarica, ma contribuisce e arricchisce. Ad maiora!
@Mirko
Non sono sicuro che sia una buona cosa “il libro come nodo passante di sequenze originate altrove e destinate altrove”; da qualche parte dentro di me sono pervicacemente convinto che la letteratura possa essere buona o cattiva letteratura, ma che il testo sia centrale, e mi pare che a Baricco sfugga l’altra faccia della medaglia: la personalizzazione (che è personaggizzazione, per usare un termine più brutto e più esatto) degli atti di significazione, quel processo per cui la nostra cultura sta mutando in tifoseria: il proliferare, nelle zone alte, di libri scritti da non scrittori e, nelle zone basse, di autori di case editrici a pagamento, mi pare sia solo un modo del più generale spostamento dell’intera sfera della dialettica sul piano dell’argomento a uomo; insomma, mi sembra che sia parente stretto degli articoli di Feltri sui moralisti, dei giudizi che pretendono di essere dati su un’opinione ma che variano a seconda che l’opinione sia espressa da un povero diavolo o da un divo, da uno di destra o da uno di sinistra.
Questo non vuol dire che Baricco abbia torto nel ritenere il mercato della letteratura “di qualità” lo stesso di ieri, riguardo alla sua ampiezza; non ho accesso ai numeri per contestarlo.
Ma in primo luogo non so quanto la letteratura “di qualità” possa reggere in termini di visibilità; e anche in termini di produzione: è vero che se sono un editore posso pubblicare un genio sconosciuto ammortizzando la perdita con i proventi della Littizzetto, ma in fondo chi me lo fa fare quando posso pubblicare Fabio Volo al posto del genio sconosciuto?
Inoltre: la sfera sociale si amplia, e con essa i diritti e i doveri. Una democrazia è costretta a rinnovarsi costantemente. De Monticelli suggerisce, nella risposta data in questi giorni a Veneziani, che “la democrazia costituzionale […] e la maturità morale delle persone, la loro decenza civile costituiscono un circolo, vizioso o virtuoso a seconda della direzione in cui gira. Nessuna democrazia può sopravvivere senza una diffusa capacità di rinnovamento morale continuo delle persone”. Siamo sicuri che questo discorso non valga solo nella sfera morale ma anche in quella culturale (sempre che poi siano realmente separate)? Io non sono affatto sicuro che il gigante di pietra di Baricco non cadrebbe in pezzi una volta che si mettesse a camminare, e questo è un problema, perché il sentire di una società non sta fermo. Una videocrazia nella quale i figli siano più ignoranti dei genitori è in grado di continuare a essere in senso pieno una democrazia? E i recenti casi di attentati alla formazione e alla ricerca come dovrebbero essere letti, in questo contesto?
Naturalmente queste domande hanno un senso solo se si accetta l’assunto che di fatto la cultura dei “barbari” sia in qualche modo inferiore (non facciamo dell’inutile ipocrisia) alla cultura che fino a ieri era ritenuta La cultura, il che non è necessariamente detto. E tuttavia il caso Italia dà da pensare, in merito.
E qui torno al discorso di partenza sul libro come “nodo passante di sequenze originate altrove e destinate altrove”. Riprendo un passo dall’ottimo L’assedio del presente, di Claudio Giunta (Il Mulino 2008) (al quale rimando anche per l’idea di un bene in sé per sé del mondo dei libri le cui istruzioni per l’uso sono date NEI libri):
“…Ma nel loro giusto elogio della società aperta questi ottimisti badano troppo alla quantità dell’offerta e troppo poco alle condizioni e al contesto in cui questa offerta ha luogo. Se facessero attenzione a questo vedrebbero che all’aumento nella diffusione della cultura ha corrisposto una diminuzione del suo prestigio nella coscienza della larga maggioranza dei cittadini: così che se un tempo era un sentimento diffuso e nobile il rispetto degli ignoranti per la scienza oggi è più facile trovare il dileggio della cultura autentica da parte dei semicolti. Questo non sarebbe grave se la cultura umanistica e scientifica seria tenesse saldamente la barra del timone e potesse ignorare il disprezzo della massa e dei mass media. Ma non è così, perché l’influenza della cultura liberale e il suo potere d’attrazione sono diminuiti non solo se si guarda alla massa ma anche se si guarda all’élite dirigente: quegli «ambienti ufficiali» che nell’età di Carducci governavano e, appunto, leggevano dei libri. In questo nuovo contesto, rallegrarsi (rallegrarsi e basta) perché l’amministrazione non fa mancare gli spazi per la ‘cultura d’élite’ è come trarre buoni auspici per l’ecologia da un’aiuola scavata in mezzo al traffico: è sempre qualcosa, ma è qualcosa per pochi, quelli che hanno la fortuna di viverci vicino, e che gli altri non solo non possono condividere ma non vedono. Il rischio non è, insomma, che i valori della cultura liberale scompaiano dall’orizzonte delle generazioni future. Il rischio è che questi valori non abbiano più alcuna vera influenza sulla vita degli uomini, che diventino una lingua morta, sopraffatta dai nuovi valori elaborati e imposti non dalle persone che pensano ma dalle persone che gestiscono i mass media. Vale a dire che i valori della cultura liberale che, pur restando minoritari, sono sopravvissuti e si sono rafforzati nei secoli portandoci al nostro attuale livello di civiltà potrebbero non essere più riconosciuti come tali in un mondo in cui modelli di vita del tutto opposti eppure ‘ragionevoli’, razionali rispetto a quel fine che sarà l’esistenza nella società futura, vengono propagandati attraverso mezzi infinitamente più potenti”.
E’ un po’ lungo, ma secondo me ne vale la pena…
“L’idea che il mondo dei libri sia attualmente sotto assedio da parte dei barbari è oggi tanto diffusa da essere diventata quasi un luogo comune. Nella sua vulgata, direi che poggia su due pilastri: 1) la gente non legge più; 2) chi fa i libri pensa ormai solo al profitto, e l’ottiene. Detta così, è paradossale: è chiaro che se fosse vera la prima, non esisterebbe la seconda. Quindi c’è qualcosa da capire. (…)
Partiamo da un dato certo: in effetti, da decenni l’industria editoriale dell’occidente aumenta in modo costante e significativo il proprio volume d’affari. Non amo i numeri, ma, per capirsi, negli Stati Uniti il numero dei libri prodotti è aumentato, solo negli ultimi dieci anni, del 60%. In Italia, il fatturato dell’industria editoriale, negli ultimi vent’anni, è quadruplicato (bisogna tener conto che il passaggio all’Euro ha fatto lievitare molto gli incassi, ma il dato resta abbastanza impressionante). Fine dei numeri, e riassumo: quelli vendono che è una meraviglia.
Risultati del genere non si ottengono per caso. Sono il risultato di una mutazione genetica. Quelli che l’avversano, l’hanno descritta così: dove c’erano aziende quasi famigliari in cui la passione si coniugava con profitti modesti, adesso ci sono enormi gruppi editoriali che mirano a profitti da industria alimentare (diciamo sul 15%?); dove c’era la libreria in cui il commesso sapeva e leggeva, adesso ci sono megastore a più piani dove trovi anche cd, film e computer; dove c’era l’editor che lavorava inseguendo bellezza e talento, adesso c’è un uomo marketing che con un occhio guarda all’autore, e con due guarda al mercato; dove c’era una distribuzione che funzionava da nastro trasportatore quasi neutrale, adesso c’è una strettoia dove passano solo i prodotti più adatti al mercato; dove c’erano pagine di recensioni, adesso ci sono classifiche e interviste; dove c’era la sobria comunicazione di un lavoro fatto, adesso c’è una pubblicità strabordante e aggressiva. Sommate tutto, e vi fate l’idea di un sistema che, in ogni suo passaggio, ha scelto di privilegiare l’aspetto commerciale rispetto a qualunque altro.
Per quanto ne so io, un quadro del genere descrive abbastanza fedelmente lo stato delle cose. (…)
Come mi ha ricordato un amico a cui devo spesso una parte dei miei pensieri, fino alla metà del settecento quelli che leggevano libri erano, sostanzialmente, quelli che li scrivevano: o magari che non li scrivevano ma avrebbero potuto farlo, o che erano fratelli di uno che li scriveva, insomma erano nei paraggi. Era una piccola comunità circoscritta, i cui confini erano determinati dal possesso dell’istruzione e dalla libertà dall’urgenza di un lavoro redditizio. Con l’avvento della borghesia si crearono le condizioni oggettive perché molta più gente avesse le capacità, i soldi e il tempo per leggere: erano lì, ed erano a disposizione. Il gesto con cui li si raggiunse, inventando l’idea (che doveva parere assurda) di un pubblico di lettori che non scrivevano libri, oggi lo chiamiamo: romanzo. Fu un gesto geniale, e lo fu, simultaneamente, da un punto di vista creativo e da un punto di vista di marketing. Il romanzo è il prodotto che ha reso reale un pubblico che era solo potenziale, e che esisteva solo sotto la pelle del mondo. Il fatto che il romanzo abbia prodotto denaro (e tanto) ci appare oggi quasi un corollario trascurabile: ci sembra più significativo il gesto di civiltà che vi riconosciamo: il pervenire a una superiore e formalizzata consapevolezza di sé e a una raffinata idea di bellezza. La distanza storica però non ci deve far perdere la comprensione delle cose reali: il romanzo ottocentesco era pensato per coprire l’intero mercato disponibile, mirava a tutti i lettori possibili, e da Melville a Dumas in effetti li raggiungeva tutti. Se oggi ci sembra un prodotto èlitario, è perché, per quanto spalancato, il campo di gioco di quella editoria rimaneva circoscritto, chiuso dai muri dell’analfabetismo e delle differenze sociali. Ma vorrei essere chiaro: tutto il campo disponibile, il romanzo se lo prese, in una delle operazioni commerciali più grandiose della nostra storia recente. Erano pochi, ma il romanzo se li prese tutti.
(Ora, se pensate al sistema settecentesco dei libri, a ogni sua rotella, non fate fatica a immaginare che l’irrompere del romanzo abbia, ai tempi, squassato tutto, imponendo una nuova logica. Facile che quella vecchia famiglia allargata di colti scrittori-lettori abbia guardato con disgusto a una commercio e a una produzione che metteva libri in mano a signore impreparate e garzoni che appena sapevano leggere. E infatti il romanzo borghese, ai suoi albori, fu percepito come una minaccia, e come un oggetto sostanzialmente nocivo (i medici, spesso, lo vietavano): di certo dovette apparire come uno smottamento del tratto nobile del gesto di scrivere e leggere. Facile che lo si attribuisse a un avida volontà di successo e di guadagno. E’ un panorama che vi ricorda qualcosa?)
Se risaliamo dal mondo dei libri ad altri limitrofi, vorrei che provaste a pensare almeno per un momento che storicamente non è mai esistita una frattura fra un prodotto di qualità, da una parte, e un prodotto commerciale, dall’altra: tutto ciò che adesso noi ripensiamo come arte alta, al riparo dalla corruzione mercantile, è nato per soddisfare l’intera platea del suo pubblico, coerentemente a una logica commerciale scarsamente frenata da considerazioni artistiche. (…) Mozart componeva per tutto il pubblico d’allora, a costo di andarsi a inseguire i meno ricchi nei teatri di Schikaneder. E Verdi era conosciuto da tutti coloro che potevano entrare in un teatro, o tenere uno strumento in casa: scriveva musica anche per il più ignorante, rozzo e insensibile di loro. Va da sé che all’interno di ogni parabola artistica sono sempre esistiti prodotti più difficili e prodotti più facili: ma è un’oscillazione che dice poco quando il facile è Rossini o Mark Twain. Erano sistemi che anche quando si chinavano sul meno attrezzato dei loro spettatori, conservavano integra la nobiltà del gesto. E quando scivolavano nella faciloneria pura e semplice (tutta l’arte che poi abbiamo dimenticato) macinavano orrori che, com’è dimostrato, non scalfivano minimamente la possibilità di coltivare rigogliose piantagioni di prodotti degnissimi. Ammesso che per avidità commerciale si desse talvolta alla gente il peggio, era un sistema che non ha impedito la nascita di nessun Verdi.
Se provate a pensarla così ancora per qualche minuto, possiamo ritornare ai libri e cercare di capire. Prendete l’Italia degli anni 50. Erano gli anni in cui al Premio Strega andava gente come Pavese, Calvino, Gadda, Tomasi di Lampedusa, Moravia, Pasolini (ci sarebbe andato anche Fenoglio, ma dovette lasciare il posto a Calvino! Oggi non si hanno più quei problemi lì). Gli editori si chiamavano Garzanti, Einaudi, Bompiani, ed erano cognomi di persone vere! Se dobbiamo pensare a una civiltà che oggi è stata spianata dai barbari, eccola lì. Nella qualità dei libri, nella statura degli addetti ai lavori e perfino nelle modalità del lavoro e della commercializzazione (la piccola libreria, i recensori insigni, i risvolti fatti da Calvino) quegli anni sembrano rappresentare per noi il paradiso perduto. Ma che Italia era quella? Com’era, esattamente il campo in cui giocavano?
Non è facile rispondere, ma ci provo. Era un’Italia in cui i due terzi della popolazione parlava solo in dialetto. Il 13 % erano analfabeti. Tra quelli che sapevano leggere e scrivere, quasi il 20% non avevano titolo di studio. Era un’Italia appena uscita da una guerra persa, ed era un paese in cui di tempo libero ce n’era poco, e la stessa piccola borghesia emergente non aveva ancora il surplus di reddito con cui finanziare il proprio diletto e una propria formazione culturale. Era un paese in cui la trilogia degli antenati di Calvino, in sette anni, vendeva 30.000 copie. Dico questo per tracciare i bordi del campo: indipendentemente da quello che avrebbero voluto fare, ai tempi quelli che vendevano libri lo potevano fare in un mercato oggettivamente piccolo. Oggi sappiamo che quell’ecosistema piuttosto angusto generò professionalità sublimi, autori geniali e riti nobilissimi. Ma c’è qualcosa che ci autorizza a pensare che tutto ciò sia nato in virtù di una ritrosia a commercializzare quel mondo, privilegiando la qualità delle persone e dei gesti? Credo di no. Ancora una volta, mi sembra piuttosto che loro possedessero tutto il campo possibile, con normale istinto commerciale, e ciò che noi oggi riconosciamo come qualità fosse esattamente l’espressione dei bisogni della ristretta comunità a cui si rivolgevano: perfino uno specchio delle loro abitudini, dei loro riti quotidiani (il libraio, la terza pagina dei giornali, la libreria in salotto…). Tutto il mercato che c’era, loro lo abitavano, e davano a quel mercato esattamente quel che chiedeva, sia nei prodotti, sia nei modi con cui li porgevano.
Se tendete ad attribuir loro, comunque, una certa nobile ritrosia a forzare il mercato, sfondando i confini noti con prodotti più facili, allora devo dirvi una cosa: in realtà spiavano ogni minimo allargamento dell’orizzonte, sapevano che sarebbe arrivato, e lo stavano aspettando. Dovettero intuire qualcosa alla fine degli anni 50, quando un libro come Il Gattopardo (inviso a buona parte dell’intelligentsia del tempo) arrivò a vendere 400 mila copie in tre anni. Era un segnale. Diceva che c’era un pubblico appena entrato in sala, che ancora era costretto a scegliere, e comprava poco, ma ben presto avrebbe avuto tempo e soldi per leggere. Non si limitarono ad aspettarlo. Gli andarono incontro. E ampliarono la sala. La nascita degli Oscar Mondadori, e quindi del mercato del libro economico, del tascabile, è del 1965. Fu successo immediato: Addio alle armi vendette 210 mila copie in una settimana. Alla fine del primo anno gli Oscar avevano venduto più di otto milioni di copie. Bum. L’Italietta era finita, e il mondo dei libri era improvvisamente diventato un campo apertissimo. Pensate che si siano fermati ai bordi, riflettendo sull’opportunità o meno di andarlo a conquistare? Ci si buttarono e basta. E l’editoria si abituò ad abitare un campo così aperto. Da allora, non si è più fermata: si è lasciata invadere da ogni successiva ondata di nuovo pubblico. Fino a quella, micidiale, degli ultimi vent’anni.
Quel che voglio dire è che, nonostante le apparenze, contrapporre un’editoria di qualità del passato a un’editoria commerciale del presente è un modo inesatto di porre i termini della questione. In realtà sembrerebbe più plausibile ammettere che l’editoria si è sempre spinta fino ai limiti possibili della commercializzazione, con l’istinto che qualsiasi gesto ha di abitare tutto il terreno disponibile. (…)
In fondo, forse la domanda corretta da porsi, sarebbe questa: che tipo di qualità è generato dal mercato che oggi vediamo all’opera? Che idea di qualità hanno imposto i barbari dell’ultima ondata, che sono venuti a invadere i villaggi del libro negli ultimi dieci anni? Cosa diavolo vogliono leggere? Cos’è, per loro, un libro? E che nesso ha, quello che hanno nella testa, con ciò che noi ancora riconosciamo come editoria di qualità?
La prima cosa che credo di poter dire è che i barbari non hanno spazzato via la civiltà del libro che hanno trovato: se qualcuno teme un genocidio più o meno consapevole di quella tradizione, inquadra probabilmente un rischio possibile, ma non una realtà già in atto. Mi sono limitato a chiedere cosa ne è di quella letteratura, ad esempio, che noi vecchi continuiamo a ritenere “di qualità”. Il responso di tecnici anche molto scettici sulla piega che il mercato dei libri sta prendendo, è che quella letteratura ha goduto dell’ampliamento del mercato: vende un po’ di più, alle volte molto di più, praticamente mai molto di meno. Né i megastore, né il cinismo delle case editrici e della distribuzione sono riusciti a scalzarla. Non mi dilungo, perché questo non è un libro sui libri, ma le cose stanno così. Oggi uno scrittore di qualità come Tabucchi vende di più di quanto potesse fare, oggettivamente, un Fenoglio ai suoi tempi. Quello che ci induce a pensare il contrario è la prospettiva, il gioco delle proporzioni: mentre il Tabucchi della situazione ha aumentato discretamente le sue vendite, tutti gli altri libri, quelli che a noi vecchi non sembrano di qualità, hanno aumentato il loro campo d’influenza enormemente. Così, il mercato dei libri finisce per sembrarci come un enorme uovo al paletto, in cui il rosso, più grande che in passato, è l’editoria di qualità, e il bianco, dilagato a proporzioni enormi, è tutto il resto. In questo senso, volendo capire i barbari, quel che bisognerebbe fare è capire quel bianco: è il campo in cui si sono assestati, senza troppo dar fastidio al rosso. Vogliamo provare a capire di cos’è fatto?
Io una mia idea ce l’ho. Il bianco è fatto di libri che non sono libri. La maggior parte di quelli che oggi comprano libri, non sono lettori. Detta così sembra la solita litania del reazionario che scuote la testa e disapprova (in pratica è la traduzione dello slogan: la gente non legge più). Ma vi prego di guardare la cosa con intelligenza: lì dentro è nascosta una delle mosse che costruiscono la genialità dei barbari, la loro bizzarra idea di qualità. Provo a spiegare partendo dall’indizio più evidente e volgare: se guardate una classifica di vendite, ci troverete un numero incredibile di libri che non esisterebbero se non partissero, per così dire, da un punto esterno al mondo dei libri: sono libri da cui hanno fatto un film, romanzi scritti da personaggi televisivi, racconti messi giù da gente in qualche modo famosa; raccontano storie che già sono state raccontate altrove, o spiegano fatti che sono già accaduti in un altro momento e in altra forma. Naturalmente la cosa infastidisce e dà quella sensazione diffusa di spazzatura imperante: ma è anche vero che lì, nella sua forma più volgare, crepita un principio che, invece, volgare non è: l’idea che il valore del libro stia nel suo offrirsi come tessera di un’esperienza più ampia: come segmento di una sequenza che è partita altrove e che, magari, finirà altrove. L’ipotesi che possiamo imparare è questa: i barbari usano il libro per completare sequenze di senso che sono generate altrove. Quel che rifiutano, che non li interessa, è il libro che si rifà, completamente, alla grammatica, alla storia, al gusto della civiltà del libro: questo lo ritengono povero di senso. Non è inseribile in nessuna sequenza trasversale, e quindi gli deve parere terribilmente asfittico. O quanto meno: non è quello il gioco che sanno fare.
Per capire bene dovete pensare, che so, a Faulkner. Per scendere con Faulkner in un suo libro, di cosa si ha bisogno? Di aver letto molti altri libri. In un certo senso bisogna essere padroni dell’intera storia letteraria: bisogna essere padroni della lingua letteraria, abituati al tempo anomalo della lettura, allineati a un certo gusto e a una certa idea di bellezza che nel tempo sono stati costruiti all’interno della tradizione letteraria. C’è qualcosa di esterno alla civiltà dei libri che vi è necessario per fare quel viaggio? Quasi niente. Se non esistesse nient’altro che i libri, i libri di Faulkner sarebbero in fondo comprensibilissimi. Lì, il barbaro si ferma. Che senso ha, si deve chiedere, fare una fatica porca per imparare una lingua minore, quando c’è tutto il mondo da scoprire, ed è un mondo che parla una lingua che so?
Volete una regoletta che riassuma tutto questo? Eccola: i barbari tendono a leggere solo i libri le cui istruzioni per l’uso sono date in posti che NON sono libri.
Quando tutto si risolve nel leggere i libri dei cantautori al posto di Flaubert, o i romanzi dello scrittore che ti è sembrato simpatico o sexy in televisione, la cosa suona piuttosto deprimente. Ma, ripeto, quello è l’aspetto più volgare, semplice, del fenomeno. Che ha anche attuazioni raffinate. Per me resta, ad esempio, formidabile il caso dei libri venduti insieme ai quotidiani. E’ un fenomeno che sicuramente non vi è sfuggito. Forse però non avete idea delle dimensioni della cosa. Eccole qua: da quando a qualcuno è venuta l’idea di vendere libri scelti, a poco costo, insieme ai quotidiani, gli italiani ne hanno comprati, solo nei primi due anni, più di 80 milioni di copie. Credetemi, sono cifre senza senso. E sapete una cosa curiosa? A detta degli esperti, una simile alluvione di passione letteraria, non ha spostato di un millimetro le vendite tradizionali. Si poteva pensare che quegli stessi libri non avrebbero più venduto per anni: non è successo. Si poteva pensare che avrebbero venduto di più: non è successo. Fantastico, no? C’è qualcuno che ci capisce qualcosa?
Spiegazioni ce ne possono essere tante. Ma per quel che importa a noi, in questo libro, la cosa illuminante è una: quel modo di vendere i libri dava l’impressione che quei libri fossero un segmento di una sequenza più ampia, che la gente usava correntemente, con grande fiducia e soddisfazione: erano un prolungamento del mondo di Repubblica, o del Corriere della sera, o della Gazzetta dello sport. La promessa, sottintesa, era che leggere Flaubert sarebbe stato un gesto perfettamente collocabile in sequenza col ricevere le notizie, avere quei gusti culturali, condividere una certa passione politica o praticare un medesimo hobby. La promessa, ancor più sottintesa, era che in qualche modo chi leggeva quel giornale aveva le istruzioni d’uso per poter far funzionare quegli strani oggetti-libro. In realtà non era così, perché poi Faulkner resta Faulkner, anche se ve lo mette in mano, con nonchalance, Eugenio Scalfari: per cui probabilmente li hanno comprati ma poi non li hanno letti: ma è bastato che qualcuno schiudesse la possibilità concettuale che Faulkner fosse collocabile in sequenza con altre narrazioni, per far sì che i barbari (o il tratto barbaro che è in noi, anche nei più obsoleti passatisti) rispondessero con istintivo entusiasmo. Risultato: hanno comprato Flaubert persone che mai e poi mai l’avrebbero comprato; e l’hanno ricomprato persone che ne possedevano già due copie. Tutti figli della stessa illusione: che, d’improvviso, l’autoriferimento della letteratura a se stessa si fosse magicamente spezzato. (E poi era simbolicamente così forte il fatto che li si potesse comprare in modo tanto semplice. “Mi dia anche questo, va’.” Pochi euro. E via, con Faulkner dentro il giornale. Era veloce. Non sottovalutate questo: era veloce: era un gesto collocabile in una sequenza veloce di altri gesti. Non era andare in libreria, posteggiare, parlare un po’ con il libraio e poi scegliere, riprendere la macchina e finalmente poter far altro. Era veloce. Eppure in mano avevi Faulkner, non Dan Brown. La intuite, la micidiale illusione?)
Riassumo: se uno va a vedere il bianco dell’uovo trova molti atteggiamenti semplicistici, ma anche l’affacciarsi di un’idea, strana e non idiota: il libro come nodo passante di sequenze originate altrove e destinate altrove. Una specie di trasmettitore nervoso, che fa transitare senso da zone limitrofe, collaborando a costruire sequenze di esperienza trasversali. Quest’idea è talmente lontana dall’essere idiota che ha iniziato perfino a modificare il rosso dell’uovo, a contagiarlo.”