In Italia abbiamo un problema (tra i molti già esistenti): non siamo capaci di creare bei titoli per film e romanzi stranieri.

Come Eternal Sunshine of the Spotless Mind è diventato Se mi lasci ti cancello, così Clara e Mr. Tiffany si è trasformato nel più amichevole Una ragazza da Tiffany. Un titolo che ha la colpa di evocare libri come Bridget Jones o I love Shopping, non rendendo giustizia al contenuto del libro.

Veloce da leggere, con uno stile senza pretese, Una ragazza da Tiffany di Susan Vreeland non è probabilmente Anna Karenina ma, nella sua semplicità, riesce a raccontare la donna e il suo rapporto con il lavoro in maniera profonda e riflessiva.

Ambientato dalla fine dell’800 ai primi del ‘900, il libro racconta il passato meno conosciuto del marchio Tiffany e, più in generale, la condizione lavorativa della donna in quegli anni.

La storia ha come protagonista il mondo di Louis Comfort Tiffany, direttore artistico di quella che è oggi un’azienda di gioielli, e Clara, giovane donna emancipata che ha (realmente) creato i suoi oggetti più belli. Tiffany nasce infatti come azienda che produce oggetti artistici in vetro, soprattutto lampade e mosaici, realizzati dal genio e dalla passione di Clara.

La sua figura ci mette però di fronte ad altri aspetti più interessanti: il primo è la condizione della donna agli inizi del secolo, quando non era concepibile che potesse lavorare, soprattutto se sposata. Clara, a capo del reparto femminile di Tiffany, si trasforma presto in un’eroina che lotta contro i sindacati che vorrebbero proteggere esclusivamente i lavoratori. Combatte per proteggere le sue dipendenti, per aiutarle a non perdere il lavoro e non farsi schiacciare dal maschilismo imperante della società.

Secondo punto del romanzo è la bellissima descrizione dell’amore per il lavoro artigianale. Come Mr. Tiffany non voleva produrre in serie le sue creazioni in quanto ognuna era “figlia” della persona che la ideava e realizzava, e per questo unica, così Clara plasmava i suoi capolavori con attenzione e cura. In un mondo dove la scarsa qualità è la regola e la produzione in serie è la base di tutto, riscoprire l’emozione della manualità e del processo creativo fatto a regola d’arte è un momento stimolante per chi crede ancora nel lavoro di qualità.

Altro aspetto indagato dal libro è sempre un omaggio al lavoro. Questa volta come realizzazione di se stessi. Quello che fa Clara durante le ore di lavoro, creare qualcosa di bello, alimenta poi la sua stessa personalità insegnandole ad ammirare la bellezza del mondo, sia essa un tramonto o un giardino.

L’ultimo aspetto del romanzo sul quale val la pena riflettere è forse quello più importante, anche se non va letto come elemento in contrasto con quanto detto. Il lavoro, anche quello più bello e appassionante, non può e non deve costringere a sacrificare amore, amicizia e famiglia.
Anche se oggi noi donne non siamo costrette a scegliere (non direttamente almeno) tra “matrimonio e lavoro”, come succede ad alcune protagoniste del libro, dobbiamo comunque imparare a trovare un equilibrio tra ogni aspetto della nostra vita.

Non stakanoviste, non menefreghiste, ma persone in grado di trasformare le ore passate al lavoro e quelle nel proprio privato come carburante per alimentare la ricchezza della nostra personalità.
E’ un percorso difficile, ma possibile.

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