Ogni tanto capita di imbattersi in persone che si vantano di aver fatto l’amore nei posti più strani. Lungi da me l’idea di partecipare a questa gara, ma potrei nel caso iscrivermi se ne esistesse una dedicata a scrivere poesie nelle condizioni più improbabili.
Io una volta ne scrissi una mentre guidavo in autostrada.
“Scrissi” è un termine improprio, la immaginai verso per verso, quasi integralmente. Poi mi fermai e la trascrissi su un foglietto volante.
Mi rendevo conto che parlava di biciclette e di cose che nell’aldilà un signore diceva ad un altro con aria un po’ di affetto un po’ di rimprovero.
Solo dopo mi resi conto che si chiamavano entrambi Marco.
Così il titolo era già fatto…

 

La bici di Marco.

La tua bici, Marco

ne ha viste di tutti i colori:

le fughe in salita, i rischi in discesa

le bionde e le more – le donne, gli amori –

le droghe – furbate da tanti dimenticate –

così esagerate da sballare i valori.

Le urla, gli evviva delle moltitudini

guardate dal dentro della solitudine.

Un grande tu eri, un grande-piccino

in continua ricerca della luce che avevi

negli occhi quand’eri bambino.

 

Io… anch’io sono Marco

anch’io c’ho la bici

o almeno, l’avevo, una Vichi

non proprio moderna, ma assai dignitosa…

no, non l’hanno rubata

o meglio, si

– vigliacchi –

mi han preso la vita,

che certo ad entrambi è stata concessa

un po’ troppo corta.

E se forse hai imprecato talvolta

perché in bici hai forato

e non c’era lì pronta una ruota di scorta…

non ti lamentare

che a me, non solo la ruota

è mancata.

A me

è mancata la scorta.

 

 

Quella poesia produsse un incontro.

Ero inquieto, sentivo che ci dovevo fare qualcosa ma non sapevo cosa. Sapevo chi era l’avvocato della signora Biagi. Aveva lo studio proprio di fronte al mio, a Bologna. Gli portai una busta, dentro La bici di Marco e la mia prima raccolta di poesie.

Dopo qualche giorno mi arrivò un biglietto di Marina Biagi, mi diceva che era rimasta molto toccata, che si chiedeva come potessi avere immaginato certe cose di suo marito di cui parlavo nella poesia.

Di lì a poco andò in scena un mio spettacolo di teatro canzone a Bologna in cui era inserita la poesia. Lei venne e a fine serata ci conoscemmo. Mentre le davo la mano disse solo: “Io e Lei dobbiamo prendere un caffè insieme”.

Agli ordini. Ne abbiamo presi diversi di caffè insieme da quel giorno. Piano piano Marina mi fece conoscere un mondo che ignoravo, di cui nessun giornale aveva mai parlato. E mi chiedevo perché. Strano il mondo della comunicazione.

Marina mi raccontò che Marco sentiva il dovere di lavorare ad un progetto per aumentare le protezioni e le difese per tutti i lavori che non fossero a tempo indeterminato. “Lo devo fare per i nostri figli e per tutti i ragazzi come loro, perché stiamo andando verso un mondo in cui il lavoro a tempo indeterminato sarà sempre meno, quindi dobbiamo almeno rendere quello precario più protetto e più valorizzato.”

Oggi finalmente qualcosa emerge, ognuno si faccia la sua idea

C’è una cosa che non ho mai digerito negli incastri e congiunture della cronaca, del potere, della politica: gli stessi che si appuntarono sul petto la medaglia della “Legge Biagi” (mai sconfessata dal successivo governo di centro sinistra, ministro Paolo Ferrero al dicastero della Solidarietà Sociale del Governo Prodi II e attuale segretario di Rifondazione Comunista) e che poteva essere migliorata rinforzando le tutele per i lavoratori, furono gli stessi che in vita gli negarono la scorta. E da morto lo chiamarono “rompicoglioni”.

Vampiri.

Oggi sono 10 anni che le Brigate Rosse hanno ammazzato Marco Biagi, erano le 7 di sera, tornava a casa in bici.

Erano armati, lui no.

Vigliacchi.

 

p.s. uno dei motivi per cui Marina Biagi si era sorpresa alla lettura della poesia era il fatto che Biagi – ciclista provetto della domenica –  teneva nel suo studio… il poster di Pantani e che ci era rimasto molto male per la storia del doping.

 

p.p.s. naturalmente quella poesia non mi procurò le simpatie della Fondazione Pantani. Tant’è, anche io sono un tifoso tradito.

 Andrea Marzi

 

1 commento

  1. 19 marzo – Festa del papa’
    Ogni anno penso con affetto ai papa’ veri, ai papa’ nel cuore. Ai papa’ che riceveranno disegni appiccicosi dei loro bimbi ed orgogliosi li appenderanno in ufficio o li metteranno al sicuro in qualche posto dove poi ammirarli ed accarezzarli ed in silenzio commuoversi.
    Penso ai figli senza padre – e non sempre sono gli orfani – i figli che che vivono nel dolore questo giorno.
    Da 10 anni, in questo giorno, penso sempre anche ai figli di Biagi, stavano aspettando che rientrasse il loro papa’ … Noi tutti dobbiamo loro un grande rispetto e riconoscenza per l’alto prezzo che questa famiglia ha pagato e paga per i suoi principi. Quante volte ho scritto lettere mai recapitate alla Sig.ra Biagi. Spero tramite Radio Pereira di far giungere a lei ed ai suoi figli la mia personale solidarieta’ e vicinanza con questa poesia:

    L’amore non finisce mai

    La morte non è niente,
    io sono solo andato nella stanza accanto.
    Io sono io. Voi siete voi.
    Ciò che ero per voi lo sono sempre.
    Datemi il nome che mi avete sempre dato.
    Parlatemi come mi avete sempre parlato.
    Non usate un tono diverso.
    Non abbiate un’aria solenne o triste.
    Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme.
    Sorridete, pensate a me, pregate per me.
    Che il mio nome sia pronunciato in casa come lo è sempre stato.
    Senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di tristezza.
    La vita ha il significato di sempre.
    Il filo non è spezzato.
    Perché dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
    Semplicemente perché sono fuori dalla vostra vita?
    Io non sono lontano,
    sono solo dall’altro lato del cammino.
    (Charles Péguy)

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