Pochi giorni fa ho rivisto in tv (su La7) il film Draquila, di Sabina Guzzanti: mi è sembrato “diverso” rispetto a due anni fa, superato per determinati dettagli ma ancora terribilmente attuale e duro, realistico e disvelatore. L’appendice integrativa e il commento di Mentana lo hanno poi confezionato come un proiettile, di quelli che si insinuano dentro e non trovano più via d’uscita. Uno dei momenti televisivi più significativi sul noto anniversario, che io chiamerei piuttosto commemorazione annuale. Del resto è questo l’unico atto pensabile per i media, la commemorazione. Sì, certo, qualche giornalista e qualche testata nazionale si sono azzardati ad indagare, a percorrere la strada di piccole inchieste. Ma del resto all’università mi avevano avvisato che la notiziabilità (la newsworthy per gli inglesi) dipende da alcuni decisivi fattori, primo fra tutti la “novità”. E dov’è la novità in un giorno che ricorda un cataclisma come tanti, che ha colpito una piccola città di un mediocre Paese come il nostro, tre anni or sono?

E Bossi ha vinto. La “resa”, le sue dimissioni da segretario federale della Lega Nord… hanno preso il sopravvento. E quel giorno ovunque, su stampa e tv, radio, ma anche sui social network, nessuno ha potuto sottrarsi dal commentare la notizia più importante dell’universo Italia.

Che dire, quando mi è stato chiesto di scrivere qualche riga su L’Aquila e ciò che è stato ed è, ho accettato con piacere, senza sapere cosa avrei potuto realmente mettere nero su bianco. Perché, capite, è stato un evento così significativo per me, per noi, che fare ordine tra le idee e non cadere nella banalità, nel già detto, nel patetico, diventa una piccola impresa.

Ho quindi iniziato a vagliare varie ipotesi, varie argomentazioni cui dare attenzione con le mie parole. Ma niente sembrava degno di nota. Ho pensato di raccogliere le informazioni principali sullo stato della ricostruzione, ma che senso avrebbe avuto? Tutti possono trovarle, queste informazioni. Si può persino consultare la relazione del ministro Fabrizio Barca su ciò che “non è stato” a tre anni dal sisma.

Eppure qualcosa che possa lasciare un segno, che possa restare nella vostra mente per qualche minuto di questa giornata qualsiasi… vorrei trasmetterlo. Sono felice di poter scrivere della mia città in un giorno come tanti, perché il 6 aprile è già passato e tutto è tornato al suo lento scorrere.

Potrei descrivere il mio 6 aprile 2009, il terrore che si è impadronito di me quando, lontana dalla mia famiglia e non a L’Aquila, ho acceso il cellulare alle 8 del mattino trovando sms di decine di conoscenti che chiedevano informazioni, ma nulla dei miei cari. Potrei chiudere gli occhi e rivedermi al cellulare, accanto alla finestra aperta perché credevo di soffocare e nessun segnale dalla mia famiglia riusciva a raggiungermi. Crudele scherzo del destino: tra tante chiamate e messaggi memorizzati dal mio telefono non c’erano i più importanti. Non so quanti minuti siano passati prima che una voce all’altro capo di quel maledetto dispositivo mi dicesse “stanno bene”. Forse mezz’ora, un’ora. Ma, per me, una vita intera, che davanti ai miei occhi è diventata un frammento lontano.

Potrei raccontarvi del mio modo di “elaborare” il lutto collettivo, delle perdite di tanti cari amici, del senso di colpa devastante per non essere stata lì, in quel momento, e nei momenti successivi per scavare anch’io con le mie mani insieme a chi c’era. Potrei poi descrivervi i mesi seguenti, il mio tentativo disperato di recuperare qualcosa di perduto, facendo servizio nella mia associazione di Protezione Civile, vivendo nelle tendopoli, trasferendomi come sfollata da un residence all’altro sulla costa insieme ai miei genitori, diventando “ricercatrice”, per capire, per narrare di un disagio sociale sconvolgente.

Potrei anche dirvi che ho visto ammalarsi mio padre per l’impotenza di vedersi crollare davanti la propria semplice quotidianità. Che mia madre da allora non ha più smesso di piangere e di maledirsi perché vorrebbe poter fare qualcosa. Che mia nipote, di tre anni e tre mesi, conosce il mondo e i paesaggi e le costruzioni intorno a sé chiedendo “Anche quelle case sono rotte?”.

Potrei raccontarvi lo sgomento che nutro per la perdita di alcuni amici con cui sono cresciuta, altri con cui ho vissuto esperienze meravigliose. Potrei raccontarvi la rabbia che ho dentro per non avere più la casa in cui sono cresciuta, perché i miei genitori aspettano ancora di capire e sapere cosa sarà di quelle mura, di quel valore ormai perso e mai risarcito.

Potrei anche parlarvi della non ricostruzione, dei turisti che passeggiano per le due strade aperte del centro storico a fotografare polvere e vuoto. Potrei dirvi che ogni volta che torno giù, “a casa”, spero che tutto torni a vivere, ad animarsi, a prendere forma. Potrei sorridere della mia incapacità di accettare che, naturalmente, per molte persone questo mio dramma resta mio e non può essere compreso né condiviso.

Potrei e, se qualcuno di voi che leggete ne avrà il desiderio, potrò magari descrivervi cosa prova la gente a L’Aquila, quali sono i problemi maggiori, dov’è finito il tessuto sociale, cosa significa non avere più una città e non solo un centro storico. Ma la difficoltà di fare ordine e di trasmettere le mie sensazioni più profonde è troppo grande per consentirmi di scrivere tutto ciò che “potrei dirvi”. E allora vi chiedo scusa, per le eccessive o insufficienti parole che hanno occupato questo spazio. Dopotutto una volta qualcuno ha detto: ci sono storie che devono essere raccontate. Perché raccontarle significa risarcire il passato salvandolo dall’oblio.

Eleonora Celi

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