Credo sia stato un viaggio alla scoperta di una storia personale, questo Fai bei sogni di Massimo Gramellini; una scoperta collettiva, vissuta con quella voglia di capire e vedere di quando ci si aggira per le vie di una città sconosciuta, ma famosa, che a poco a poco si scopre tanto simile a quella in cui si vive.
Mi aspettavo un romanzo in questo libro, ma vi ho trovato la cronaca narrata di una biografia e una lingua colloquiale che si ferma spesso a parlare dell’amore, del dolore, della rabbia – ma lo fa a carte scoperte, con la trama e sulla trama, come postilla, eco saggistica.
Gramellini ha parlato di sé, e a lui tanti lettori hanno scritto parlando della propria storia perché l’autore potesse, forse, scriverne altrove.
Un autore scrive un libro, i lettori scrivono all’autore per complimentarsi, scrivono del libro, quanto li ha colpiti, quanto li ha emozionati, sperano che esca presto il prossimo, ma in questo caso no, l’interesse sull’autore, sull’opera dell’autore si è fatto quasi specchio perfetto dell’interesse su di sé e sull’eventuale opera da sé (un interesse non di poco conto o da biasimare).
A novembre del 1881, Pinocchio muore impiccato. Il burattino è il primo protagonista di libri per bambini che sia davvero un bambino e i lettori si sono immedesimati in lui perfettamente – povero amico, ne combina sempre una, è allegro, ingenuo, gli va di giocare, è un bambino, non c’è alcun dubbio. Alla redazione del Giornale dei bambini arrivano centinaia di lettere di piccoli lettori: Pinocchio non deve morire. Collodi riprende la storia e la porta a un altro finale.
Che sarebbe come dire che i lettori di Gramellini avrebbero potuto scrivere all’autore che le cose non dovevano andare così, che il protagonista non doveva perdonare – invece no, sarebbe come dire niente, perché in questa narrazione l’immedesimazione del lettore è consapevole, vive in parallelo e dà vita al parallelo tra la vita raccontata nel libro e la propria vita vissuta.
Mi piacerebbe capire come mai vi sia così tanto bisogno del racconto di sé come se fossimo davvero, tutti, soli al mondo e dovessimo essere strappati da questa solitudine come dolore come abbandono come perdita di senso delle nostre vite, strappati dal raccontarsi. Non si tratta di letteratura, credo, si tratta di sopravvivenza.
Forse Gramellini non potrà prendere tutte le storie dei suoi lettori e farne altri libri, ma a me non dispiacerebbe.
Perché nel momento in cui prenderà una storia non sua e la farà diventare un libro, questo libro sarà ‘solo’ un romanzo e lo leggerò come si fa coi romanzi, che sai che è tutto finto ma sai che è tutto vero, e magari scriverò all’autore perchè il libro l’ho sentito talmente mio, romanzescamente mio, da chiedergli di cambiare il finale.
Federica Campi