Credi che la cittadini del quartiere S. Stefano di Bologna verniciano le panchine di Piazza Cardicci. sia frutto di un errore e non c'entri con Perepepè ? Vai all'asterisco a fondo pagina.

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I presenti a Perepepè nella serata di domenica 23 settembre 2012 hanno avuto la sensazione di assistere a qualcosa di speciale. Una felice sintesi di poesia, musica, pensiero politico nella sua essenza profonda e voglia di condividere hanno spinto gli artisti Stefano Sanchini, Loris Ferri, Frida Neri, Antonio Nasone a dare il meglio di sè in una maniera intensa e commossa.

Dopo una simpaticissima e ammirevole sintesi del lavoro fatto in questo anno dal gruppo che ha dato vita a Perepepè

In tanti seguirono i sentieri delle tamerici
e di notte dalle ginestre venivano le lucciole
con la loro magia a illuminare la via
fino all’autunno caldo, quando finalmente
squillò la tromba un motivetto
che assomigliava ad una pernacchia 
e faceva… 
perepepè pereppepeè pereppepeeeè
perepepè pereppepeè pereppepeeeè…
e di pesci fuor d’acqua si riempì la pescheria…

Sanchini e Ferri si sono lanciati in una struggente analisi in forma di poesia su quanto di ciò che questa terra è amabile e ciò che è da rifiutare.

Da troppo tempo la città dormiva.
Per ogni testa spenta accesero un lampione

E si spingono i poeti, ad un invito, quasi un programma politico

E tu città svela tutti i tuoi fiori
e dà a loro acqua e terra
ché fioriscano ancora
di nuovo ogni giorno,
e magari trasforma Rocca Costanza
e l’ex manicomio qua in fondo al corso,
nei tuoi più bei lussureggianti giardini.

Ha colpito, nell’intensità del verso la capacità dei poeti di farsi interpreti di una generazione di giovani finalmente consapevole di essere esclusa, emarginata dal potere e dal sistema che ha privilegiato clientele e amicizie. Non chi meritava.
Sembrano essere le avvisaglie di un’onda che si sta profilando all’orizzonte e che sarebbe meglio per tutti se la classe politica avvertisse salendo sul trespolo del bagnino di salvataggio per scrutare l’orizzonte. Finché c’è tempo.

Il giorno di nuovo lascia spazio alla notte, 
come alla luce segue sempre la tenebra.
Chi come le piante, silenzioso accompagna il profumo delle stagioni,
conosce nell’intimo, la bellezza e il male nell’uomo.

Così sulla porta d’entrata di ogni città, eretto è l’oracolo:
Qui, più che cultura vi popola il folklore!
Qui, più che costumi vi pascola l’usanza!
Qui, più che morale vi si adotta il favore!

Fino alla toccante chiusura – baciata da quell’applauso interminabile che non voleva finire – disperato appello ad immaginare un mondo nuovo con una consapevolezza che questa possibilità, dal dopoguerra ad oggi, non è mai stata altrettanto necessaria, urgente e al contempo… possibile!

Siete sicuri che questo sia l’unico mondo possibile?
Non ne avete mai immaginato un altro
dove c’erano gli altri con il loro viaggio a incontrarsi?
Responsabilità non è rassegnarsi
ma prendersi cura del sogno.
Dunque che cosa aspettate
non perdiamo l’occasione
di questa coincidenza eterna
di essere tutti vivi qui ora e adesso
in questa brevità
nelle maree del tempo…

IL Canto della Tamerice
[di Stefano Sanchini, Loris Ferri]

Composto per  l’Occasione di residenza poetica
all’interno della rassegna: Perepepè (Sia caldo l’autunno della mia città)

I
Da troppo tempo la città dormiva.
Per ogni testa spenta accesero un lampione
e quando la città fu tutta illuminata
non c’era già più nessuno per la strada,
intanto la città moriva soffocata dai mercati
piangendo incatenata dalla burocrazia…

Così la tamerice rimase sola lungo il viale
resistendo al sale e al gelo intorno
anzi, con la galaverna si fece ancor più bella,
poi si tinse di rosa e iniziò
a cantare per ore e ore al mare.
Il mare si quietò e commosso le mandò
una brezza come fosse una carezza
e sparse i semi e della tamerice il canto,
così Pesaro divenne verde e tutta in fiore
mentre nuove tamerici crescevano
l’una a fianco all’altra, a filari
salendo dal mare fin sopra le colline,
stringendosi nel canto erano felici
ma ancora non del tutto soddisfatte
volevano che altre genti ed altre arti
venendo pure da altre parti, andassero
in città per crescere nel gioco insieme.
In tanti seguirono i sentieri delle tamerici
e di notte dalle ginestre venivano le lucciole
con la loro magia a illuminare la via
fino all’autunno caldo, quando finalmente
squillò la tromba un motivetto
che assomigliava ad una pernacchia
e faceva…
perepepè pereppepeè pereppepeeeè
perepepè pereppepeè pereppepeeeè…

e di pesci fuor d’acqua si riempì la pescheria…

II
Ho visto ai miei piedi
sul ciglio della strada
posare i fiori bianchi dei morti,
per i caduti di una guerra giornaliera

che tra i rombi e i motori si combatte;
ho sentito gli occhi e la gola bruciare
dal garbino e dagli oli di benzene.
Io,la Tamerice!, asciugo le mie chiome al vento

e ai miei piedi danzano formiche,
la luna spunta gialla sulla mia schiena
e pisciano gli ubriachi alle mie ginocchia;
vivo seduta davanti al palcoscenico

piantata a schiere, la città davanti a me si muove
cintola di arbusti e odori, giro l’angolo
di sampietrini e angoli bui.
Io vi respiro e voi non mi vedete!

Io vi respiro e voi non mi vedete…

III
Sono amica del pitosforo
dell’oleandro e del rododendro
ma non disprezzo la pineta
dove si nasconde la cicala
e volentieri parlo con la quercia
che ospita il canto degli uccelli.

Come tutti gli alberi con i rami
abbraccio il vento
e silenziosa e lenta cresco
non temendo la sabbia o gli asfalti
che la mia linfa vitale spacca.
Da ogni lato vi osservo

come osservo l’alba e il tramonto,
sempre immobile ho un rapporto tattile
col cosmo e i miei rami prolungo nell’aria
come antenne per ascoltarvi dentro
quando soli passeggiate sull’arenile,
felici o tristi tutti voi divenite

adolescenti poeti implumi galli
e vi amo anche quando
nella città ponete una scultura
in dono alle bellezze della natura,
o quando amoreggiate all’ombra delle mie fronde
mentre io vi conservo al fresco acqua e frutta,

e ancora quando benevolmente agite insieme,
così vi offro il mio profumo
per ogni vostra gentile architettura,
ma nulla ad ogni vostra storpiatura.

IV
Alle spalle delle fronde sorge l’alba
mentre agli occhi, sulla piccola risacca
si fa il rosso struggente del tramonto
proprio là, dove taglia la falesia l’orizzonte

e qualche amante, ancora, nelle ore tarde
per resistere all’afa di un’umida notte
nel gioco si perde dell’amore, al chiaro di una baia.
Ogni cosa da qui prende forma, e ogni forma

ha il suo eterno ciclo. Qui risiede la cura dei sogni,
qui l’amore, in un solo respiro, riscopre se stesso;
l’aria fresca del mattino che punge gli arbusti,
l’onda che sciabordando, in continui riflussi, viene e poi se ne va.

Così ogni anno ecco che torna l’estate
con le sue cosce e le notti perdute,
la voglia di imbarcarsi per mare
e gli scrosci tristi di un agosto oramai consumato

mentre tra le brume, sul molo, resta un solo pescatore.
Così ogni anno il cielo d’ottobre
appesantisce di noia i nostri cuori
portando sulla riviera, cumuli nembi e giorni uggiosi.

Eppure lo splendore di un autunno ritrovato
ha il colore ocra e tenue del trapasso
che ai pochi occhi si concede
e alle fresche e piantate tamerici!

E le pallide lune di oggi, di ieri e di domani
all’angolo di una baia notturna, illuminano questo teatro di Slanci
che è la vita! Noi poeti portiamo negli occhi un chiarore alle stelle
e come la marea, una burrasca segreta nel cuore.

V
Ebbri, i miei pollini cavalcano
questo soffio d’alga marina
che si adagia come un tappeto
sulle piccole vie del centro,

quei vicoli d’ombra e di fresco
dove nel mezzogiorno d’estate
senti il rumore di piatti e di voci
uscire dall’aperte finestre

insieme al profumo di sughi
e fritture di pesce, a quest’ora
come di notte, quando solitari
vanno passi e pensieri

c’è sempre qualcuno
che lavora onesto e sincero
alle fondamenta e alla bellezza
del luogo in cui vive,

c’è un poeta nella mansarda
che rilegge e ritocca il suo verso,
c’è un fotografo nella camera oscura
che ti mostra ciò che l’occhio non vede,

ci sono note di un piano
che salgono nell’aria di via Cialdini,
e c’è un alto palazzo in via Curiel
dove qualcuno disegna

e ogni tanto esce in balcone
a osservare i gatti
che liberi vanno sui tetti.

E tu città svela tutti i tuoi fiori
e dà a loro acqua e terra
ché fioriscano ancora

di nuovo ogni giorno,
e magari trasforma Rocca Costanza
e l’ex manicomio qua in fondo al corso,

nei tuoi più bei lussureggianti giardini.

VI
E la via, la breve via alle spalle
lascia viali stretti, muri intonacati
insegne di banche e tavolini rossi,
la grande architettura del teatro vuoto

e l’odore umido di una notte nera
che passo a passo la sua giacca cala,
il suo mucchio di stelle sui tetti;
ronzio di neon, clacson, luminarie…

Il vagabondo, re del lastricato solo,
compagno solitario alla Tamerice,
egemone-cane degli angoli bui,
sogno della piatta onda adriatica,

vede passare interi anni sepolti
voci di madri uscire dalle imposte chiuse.
Fumano come sauri a sei sigari
i comignoli degli appartamenti;

somigliano a feticci che prendono corpo.
La città risponde al tempo naturale,
al ciclo delle stagioni eterne
attraverso i monumenti vivi della moda;

e vetrine, cartelloni, nuovi boudoir
sono lo specchio che cura
l’anima artificiale.
L’indistinta forma del sogno collettivo…

VII
Il giorno di nuovo lascia spazio alla notte,
come alla luce segue sempre la tenebra.
Chi come le piante, silenzioso accompagna il profumo delle stagioni,
conosce nell’intimo, la bellezza e il male nell’uomo.

Così sulla porta d’entrata di ogni città, eretto è l’oracolo:
Qui, più che cultura vi popola il folklore!
Qui, più che costumi vi pascola l’usanza!
Qui, più che morale vi si adotta il favore!

* Nella foto un gruppo di cittadini del quartiere S. Stefano di Bologna verniciano le panchine di Piazza Cardicci.
Più Perepepè di così…

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