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Kisumu, 12.12.13

Caro Mwangaza,

ho un problema, sono giorni che mi tormento con la solita inconcludente domanda: “Come salvare l’Africa?”

Sì lo so, una domanda piuttosto ambiziosa e presuntuosa la mia, ma credo sia normale per chiunque venga da fuori e sia qui con l’intenzione di fare nel suo piccolo qualcosa di buono. Una domanda dalle multiple e complesse sfaccettature che, piuttosto di darmi delle risposte sensate, fin ora mi ha stimolato solo altre infinite domande a catena – facendomi così perdere e attorcigliare il filo della matassa che tengo stretto tra le mie mani.

Principalmente cerco di focalizzare le principali differenze tra questo mondo e il mio nella speranza di capire dove e come sciogliere questo grosso nodo intricato su se stesso. Intavolo discussioni rompicapo con i miei colleghi europei, interrogo ostinato e sfinente la gente locale – niente da fare, ogni volta si alza solamente un gran cumulo di polvere in aria che annebbia ogni cosa, poi ricade al suolo senza lasciare nessuna traccia.

Tuttavia Mwangaza anche se non sono riuscito a trovare nessuna risposta effettiva qualche idea me la sono fatta, giusta o sbagliata che sia oggi ne condividerò una con te.

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Dunque, iniziamo dal principio, l’immagine dell’Africa che avevo prima di arrivarci era questa: milioni di bambini rinsecchiti dalla fame, dalle pance gonfie e con le mosche sulla faccia che si rincorrevano ai bordi delle strade, ammassi di baracche in lamiera costruite l’una sopra l’altra, siccità e caldo torrido, insetti pericolosi e animali selvaggi dietro ogni angolo, mancanza di cibo e di acqua, sporcizia, rifiuti e degrado, guerre e carestie, diffusione di malattie e per di più assenza di medicine e dottori, Aids, Tifo, Colera, Poliomelite, Febbre gialla (nomi che mi suonavano orribili e privi di significato), persone denutrite, scalze e dai vestiti stracciati, senza tetto, senza istruzione – insomma, senza nulla di nulla.

Infine la mia terribile lista che completava questa offuscata immagine di morte si riempiva di speranza e di forza in quanto terminava con le due belle parole: “aiuti umanitari”.

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Quell’immagine che avevo impressa nella mente ora la vedo sfuocare e sciogliersi lentamente, mentre se ne materializza una concreta, una realtà di fatti cha mai avrei potuto pensare di incontrare.

Ieri sono sceso giù in città a fare un po’ di spesa a Mega City, uno di quei Shopping Mall molto in voga nelle città Africane, ovvero colossali centri commerciali all’interno dei quali si possono trovare negozi di ogni tipo e prodotti di ogni specie. Queste compatte città del commercio stranamente sembrano suscitare un particolare stupore e interesse all’intera popolazione, che si ritrova qui unità tra le sue svariate diversità, tanto da diventare il posto per eccellenza dei propri sogni, degli svaghi e desideri, tanto da dichiarare con assoluta fermezza che il capitalismo è riuscito a infiltrarsi meschinamente perfino in Africa – il paese dalle tradizioni primitive e comunitarie, legate alla terra e ai processi naturali.

In più di una occasione sono rimasto sconvolto nel osservare il modo nel quale questo sistema si sia imposto: totalmente fuori contesto, corrompendo semplici menti inconsapevoli di cosa stanno andando incontro.

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Gironzolando tra gli scaffali del grande magazzino trovo scritti i nomi di tutti i grandi marchi che posso ritrovare a casa: Nike, Adidas, Nutella, Coca Cola. Ma c’è ne uno in particolar modo che non mi squadra, è proprio lì appoggiato alla mia volta quando per caso giro nel reparto dei caffè e con un balzo di gioia dico tra me e me: “finalmente potrò assaggiare una buona tazza di caffè direttamente nella terra della sua provenienza”. Poi spalanco gli occhi, corrugo la fronte e mi ritrovo tra le mani una scatoletta metallica con su scritto: Nestlè. La giro: Manufactured in Brazil.

Che significa?

Semplice, significa che le condizioni di mercato superimposte nel territorio africano fanno sì che la sua indipendenza rimanga tutt’ora vincolata a grosse potenze internazionali.

La maggior parte dei prodotti e manufatti che si possono trovare in Kenia vengono importati, anche quelli di cui non ha assolutamente bisogno, proprio come il caffè, mentre d’altro canto le sue preziossime ricchezze vengono svendute a costi irrisori all’estero.

Le materie prime africane vengono comprate, o meglio dire forzate a essere comprate, da società straniere dopo svantaggiosissimi compromessi, poi vengono esportate, lavorate e impacchettate direttamente dall’altra parte della terra. Per finire il ciclo vengono spedite, distribuite e vendute in ogni paese, tornano perfino nel proprio territorio d’origine: l’Africa.

Un esempio, l’oro bianco: il cotone. Basta pensarci un attimo, basta osservare quello che indossano, tutti quei cenci annodati tra loro che faccio fatica a definire magliette, quelle camicie cucite l’una sull’altra, usurate, lacerate, riassestate al limite del possibile e rattoppate fino al punto di essere confuse per capolavori di arte contemporanea, quei calzoncini che posso utilizzare senza problema come colabrodo, proprio tutto questo è fatto con lo stesso cotone che producono. Il problema è che qui non ci sono industrie che possano sfruttarlo a dovere e donare ricchezza al paese, quel cotone ora è troppo stanco, ha dovuto affrontare lunghi e temerari viaggi internazionali, è arrivato in grandi impianti di lavorazione all’estero, è stato confezionato, gli è stata attaccata una costosa etichetta che incita la bramosia di intere società dell’apparire, è stato indossato e poi gettato per fare spazio alle ultime mode del momento. Poi i suoi scarti ritornano a casa, in Africa.

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Ma esistono ricchi anche in Africa, gente che può permettersi vizi e sprechi in quantità non curante della drammatica situazione. Il fatto preoccupante è che questi ricchi corrispondono solo al 2% della popolazione e controllano più del 60% della ricchezza dell’intero paese. Percentuali che parlano da sole. Ricchi, politici, corrotti agevolano un’economia che non può conoscere futuro e sviluppo.

Parallelamente le grandi industrie internazionali, le multinazionali, vendono i propri prodotti perfino nella terra nella quale succhiano tutte le risorse, l’Africa, dando avvio a un cortocircuito difficile da venirsene a capo. Il centro commerciale di ieri era pieno di questi prodotti, ma solo in pochi possono permetterseli, solo in pochissimi si rendono veramente conto dell’ipocrisia che ci sta dietro. Nessuno dice nulla.

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Le multinazionali si trovano alla base dello sfruttamento di questo paese, derubano materie prime e utilizzano manodopera a costi pressoché nulli, spesso minorenni non pagati e in assenza di condizioni di sicurezza e igiene, dando così avvio a una sottospecie di schiavitù.

Tutto questo ha evidentemente le sembianze di un nuovo colonialismo. Un colonialismo non più di tipo politico ma economico, dove al vertice del potere stanno le industrie, appartenenti ovviamente al cosiddetto primo mondo. Un colonialismo sottile e arguto, silenzioso e camuffato, che attecchisce come un microscopico virus nelle debolezze e nelle pieghe del continente nero. Un colonialismo che non può essere dichiarato ufficialmente tale agli occhi del mondo, la cui parola suscita timore e sospetto, ma che continua a saziare la sua interminabile sete di ricchezza a dispetto della disastrosa povertà altrui. Il suo aspetto più infimo e avvilente è che ha le capacità di presentarsi al mondo come buono, giusto e caritatevole nel momento esatto in cui scaltramente si lava le mani dalle sue ingiustizie donando qualche spicciolo dal nome “aiuto umanitario” – le ultime parole della mia famosa lista di cui ti parlavo.

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Tra l’altro questo “aiuto umanitario” spesso crea un legame di ulteriore dipendenza, un vincolo, un cordone ombelicale senza il quale sarebbe impossibile sopravvivere. È un aiuto che non mira a far in modo che questo continente possa sostenersi da solo, con le proprie forze, insegnando e donando le conoscenze tecniche del progresso, ma piuttosto è un aiuto che sfama i bisogni della giornata, rendendo ancora più pigre le menti e rendendole perennemente bisognose del supporto del loro padrone.

La parola “indipendenza” mi suona vuota, dubbia e incerta, ci sono troppi farabutti che si nascondono dietro un’innocua scatoletta di caffè e moltissimi altri chi sa dove.

Di fronte a tutto ciò mi sento disarmato, afflitto e demotivato. Cose più grandi di me si muovono sopra la mia testa e di fronte ai miei occhi senza alcuna speranza di poterci fare qualcosa. La frustrazione e la rabbia cresce con la stessa consapevolezza della crudele avidità dell’uomo.

Ma questo è ancora il meno, questo è solo uno della miriade di problemi che costellano il cielo africano. Mwangaza, sarebbe abbastanza deprimente tirare in ballo altri spiacevoli racconti nella stessa pagina, facciamo che per oggi basta così, prendiamo una boccata d’aria, beviamoci sopra un tè al ginger e limone e rimandiamo alla prossima lettera, o meglio al prossimo anno.

Dimenticavo, un’ultima cosa, come salvare l’Africa?

Bisognerebbe fare qualcosa.

Ma cosa? Che fare?

 

Un abbraccio,

Carlo Cecconi

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