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PARTE PRIMA

(Questo capitolo per ragioni di lunghezza è diviso in due parti, la seconda parte sarà pubblicata la prossima settimana)

Kisumu, 13.1.14

Caro Mwangaza,

scusa il ritardo ma purtroppo a causa di una serie di avvenimenti repentini non ho avuto modo di scriverti prima, oggi ti racconterò brevemente cosa mi è successo in questi ultimi giorni.

Tutto è accaduto in un baleno. Era il 26 dicembre e il piano originale era un fine settimana tranquillo e spensierato in tenda nelle vicinanze del lago Neivasha, il risultato finale: un’avventura di due settimane attraverso l’Etiopia, tra un susseguirsi di imprevisti, sventure, emozioni e scoperte al limite del probabile.

Bisogna sempre stare all’erta, l’Africa avvisa all’ultimo minuto e tutto può capitare, così anche questa volta non si è smentita. Proprio sul ciglio dell’uscio di casa, zaino in spalle e tutto bello pronto per partire giunge una voce: il Kenia ha emanato una nuova legge per cui il visto, passati tre mesi dall’arrivo, non può essere più rinnovato. Quindi o tornare a casa o trovare una soluzione. Vada per la seconda, la soluzione? Scappare in Etiopia.

Non c’è troppo tempo per pensare, si parte. Lo zaino è sempre quello, infilo al volo altre due mutande nella tasca laterale (just in case), gambe in spalla e dritto a Nairobi per prendere il primo volo diretto a Addis Abeba.

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Un salto nel vuoto in un paese e in una cultura di cui non conosco praticamente nulla, tralasciando Mulatu Astatke, l’Exodus cantato da Bob Marley e il fallimento colonico nostrano.

È incredibile la sensazione che si prova quando la vita prende il sopravvento e senza chiederci il permesso ci salta addosso, a volte senza fare nulla ci si ritrova in situazioni assurde nelle quali non possiamo fare altro che abbandonarci al nostro destino. Ed è così che ci sorprendiamo risvegliandoci una mattina come tante nel luogo preciso in cui dobbiamo essere e con le giuste persone che dobbiamo incontrare. Siamo parte di un disegno perfetto per il quale rimango esterrefatto in ogni tratto del suo comporsi.

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Dopo aver toccato la terra etiope e aver trascorso una nottataccia nel pavimento appiccicoso dell’aeroporto inizia la prima esplorazione di Addis. Una città incredibile, mozzafiato, straripante di stimoli, un’infinità di suoni e colori erano lì per me, pronti ad aspettarmi. La sua struttura urbana ricorda una città araba, un intricato incrocio di vicoli in un sali e scendi continuo. È abbastanza pulita e non respiro quel solito odore di plastica bruciata di cui avevo fatto ormai l’abitudine. Le facce che mi circondano sono diverse, mi sembrano più schiacciate, allungate, dagli zigomi sporgenti e i tratti ben delineati, gli occhi marcati di nero e dall’espressione intensa, la pelle olivastra, i corpi snelli, tonici, le donne estremamente sensuali, incredibilmente eleganti.

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Nessuno qua mi chiama Muzungu, qualcuno usa la parola Ferengi, ma la maggioranza sembra essere indifferente al mio naturale pallore. Tuttavia torme di bambini mi saltano continuamente addosso, si aggrappano ai miei vestiti, mi porgono le loro manine a cucchiaio e con un gesto da attore le indirizzano verso la bocca facendomi capire che hanno fame – non sanno l’inglese ma la loro mimica parla una lingua molto chiara. I loro movimenti sono perfetti, sembrano studiati a puntino, sono degli esperti del settore, dei professionisti di accattonaggio come mai non ne ho visti prima. Non faccio in tempo ad allontanarmi che mi ritrovo una piccola mano infangata frugare tra le tasche dei miei pantaloni, mi giro, un bimbo mi fissa con dei grandi occhioni perplessi, sembra deluso – purtroppo oggi in tasca non ho nulla.

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Mi perdo nei miei stessi passi e da un’innocua stradina in terra battuta sbuco nel bel mezzo di un immenso e caotico mercato, tra un mescolarsi travolgente di voci, urla e polvere. Mi sento risucchiato dal turbine di un’imponente onda oceanica, tutti si spostano da un punto all’altro rapidi e decisi come in un formicaio, cerco di seguire il flusso irrefrenabile della folla serpeggiando tra file e mucchi di merci, tra una miriade di mercanzie per ogni gusto e disgusto: tappeti decorati, lenzuoli variopinti, caffettiere di terracotta, vasi di creta, collane fatte con materiali riciclati, incensi, perle, pelli, galline, mucche, conigli, pesci, cassava, armadi, tavoli, coltelli, tuniche, calzetti, scarpe, ciabatte, ciarpame, paccottiglia, rottami e chi più ne ha più ne metta.

La gente è ospitale, tutti mi stringono la mano e mi chiedono come va, c’è chi mi invita a bere la grappa locale e c’è chi mi invita a casa. Perché no? Non mi sembrano pericolosi, mi unisco a loro e in poco tempo mi immedesimo nelle loro usanze quotidiane. Entro in una locanda rumorosa, puzzolente e asfissiante, scambio due chiacchiere amichevoli con i primi che incontro al bancone, faccio qualche brindisi con i ragazzi del quartiere, sono molto poveri e mal ridotti, è difficile trovarne uno che abbia ancora tutti i denti in bocca, alcuni sono storpi, altri sono ciechi, tutti indossano magliette sudice fatte a brandelli. Ma la cosa che più mi sorprende è un’altra, qua nessuno si lamenta, nessuno rimpiange di essere quello che è, di vivere dove vive, della sorte che gli è capitata, tutti scherzano e cantano senza avere una ragione ben precisa per farlo, mi sorridono pur non riuscendo neanche a capire bene cosa sto cercando di dirgli in inglese. Non stanno sorridendo a me, stanno sorridendo alla vita. Una bella lezione da imparare per me e tutti i miei connazionali perennemente insoddisfatti.

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Poi i ragazzi mi offrono del Khat, non so di cosa si tratta ma girandomi attorno mi accorgo che tutti ne fanno uso, è un’erba dalle grandi foglie verdi che bisogna masticare a lungo fino a formare una grossa palla da tenere in bocca per poi succhiarne lentamente tutto il suo succo. Inizialmente sono un po’ scettico, ho paura che possa darmi dei problemi di stomaco, poi mi lascio andare e mi faccio trasportare dalle tradizioni, il sapore è molto buono, ha un effetto rilassante e benefico.

Procedendo la mia passeggiata raggiungo la cattedrale di San Giorgio: un edificio a pianta ottagonale collocato in cima a una collina. Il portone della Cattedrale è chiuso ma tantissimi fedeli circondano i suoi muri, c’è chi se ne sta in piedi in silenzio, c’è chi accende delle fiaccole, altri pregano ad alta voce, altri se ne stanno in ginocchio avvolti in enormi lenzuoli, o ancora c’è chi bacia insistentemente ogni angolo architettonico del luogo sacro alternando questi gesti con ossessivi segni della croce. La religione di stato dell’Etiopia è la Chiesa Ortodossa, ossia la formazione originaria della dottrina cristiana, legata ancora alla fede che a quell’epoca le era più prossima: l’Ebraismo. Shmuel, un amico israeliano conosciuto per strada assieme a sua figlia mi spiega in cosa si differenzia dal Cattolicesimo e conclude sontuoso: “Non dimenticarti che Gesù era Ebreo”.

Mi accorgo che da una palazzina accanto alla cattedrale provengono dei cori, non resisto alla voglia di dare una sbirciatina, seguo questi suoni armoniosi fino a entrare in un grande stanzone, un gruppo di fedeli mi accoglie e mi fa posto a sedere. Qui assisto a uno spettacolo meraviglioso, tantissime persone davanti a me sono disposte a quadrato formando dei lati separati di donne e uomini, tutti hanno in mano un lungo bastone inciso con delle decorazioni a spirale, al centro del quadrato c’è un uomo che sembra dare le direzioni dei loro movimenti e accanto a lui ci sono due tamburellisti che persistono ormai da parecchio su un incalzante ritmo tribale. Le persone oscillano, dondolano l’una sull’altra, girano attorno alla stanza, avanzano verso il centro, saltellano, vacillano, ruotano su se stesse, aprono le braccia e le mani al cielo. Sono catturato dai loro passi e ancora di più dalle loro voci ipnotiche che innalzano un inno a Dio intonando melodie arabeggianti dai lunghi gorgoglii e dalle cantilene tremolanti. Resto lì seduto per più di un’ora intrappolato da quell’atmosfera mistica che mi porterò dentro per tutto il resto del viaggio.

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L’idea è quella di ritornare in Kenia via terra, dopo qualche giorno trascorso a Addis è già ora di rimettersi in marcia. Lungo il tragitto faccio una tappa in un luogo particolarmente interessante dal punto di vista naturalistico, Debre Zeit, sette larghi laghi di origine vulcanica disposti consecutivamente l’uno dopo l’altro. Trasparenti, limpidi, riflettono ai miei occhi tutto ciò che li attornia: capanne di argilla e file di imponenti alberi senza nome (alla mia solita domanda: “Come si chiama quell’albero?” ho ricevuto sempre la solita risposta: “Albero”). L’atmosfera è rilassante e pacifica, sembra quasi che qui il tempo non scorra, tutto è cristallizzato.

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Ma non posso permettermi di temporeggiare a lungo, la mia nuova meta ora è Shashamane: il Paradiso in terra promesso da Jah.

La storia di questo luogo è curiosa e affascinante, mi viene raccontata la sera stessa del mio arrivo davanti a un insolito piatto di spaghetti preparato da Alex; un francese che otto anni fa è passato da queste parti per poi decidere di rimanerci lavorando nel camping in cui ho ricevuto ospitalità.

L’origine di Shashamane si trova nell’altra parte dell’Atlantico. Siamo negli anni venti a diecimila chilometri dall’Etiopia, nei Caraibi, precisamente in Giamaica, quando iniziarono le prime ondate di ribellione da parte dei discendenti degli schiavi neri importati dall’Africa e sfruttati dai bianchi, quando numerosi intellettuali, artisti e politici iniziarono a inneggiare la negritudine e a opporsi radicalmente al razzismo. Ma non solo, difatti questo movimento di ribelli intendeva combattere il colonialismo celebrando una nuova fede religiosa, una profonda spiritualità che trovava le sue radici in diverse fonti: nelle Sacre Scritture, nell’Ebraismo e nel Cristianesimo, nel ritorno a una vita semplice e pura lontana da Babilonia (intendendo con questo termine la società corrotta dell’uomo bianco), ascoltando musica Reggae, lasciandosi crescere i capelli e intrecciandoli in dreadlocks (che definirono il loro tempio), praticando liberamente amore e fratellanza, fumando marijuana per comunicare con Jah, ovvero con Dio, e infine profetizzando l’avvento di un messia nero che li avrebbe riportati nella loro terra di appartenenza: l’Africa. Dieci anni più tardi la profezia si avvera e in Etiopia, unico stato africano a sconfiggere i colonizzatori e respingere ad Adua nel 1896 l’esercito italiano, viene incoronato Ras Tafari – comunemente chiamato Heile Sellasie o, dai suoi seguaci rastafariani, soprannominato Re dei Re. Un politico astuto e carismatico che riuscì a donare ai suoi cittadini un sogno di libertà e che trasformò il suo regno nella terra promessa regalando 500 ettari ai suoi fratelli giamaicani: Shashamene.

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Tutto ciò sembra una leggenda; il giorno seguente, fresco e riposato, ammetto che è realtà. Dopo pochi passi in direzione delle alte e scure montagne mi ritrovo d’un tratto tra imponenti cascate, pozze di sorgenti termali naturali, ruscelli, fiumi, grandi rocce dalle forme bizzarre, distese di banani. Sono nel bel mezzo di una bellissima, fitta e ricca vegetazione tropicale, sembra essere la rappresentazione dipinta da secoli del Paradiso terrestre.

Il caso vuole che mi trovo in questo paese esattamente l’ultimo giorno dell’anno e, intento a prepararmi per la grande nottata, scopro sbalordito che l’Etiopia rigettando ogni usanza dei colonizzatori segue ancora il suo calendario tradizionale: l’anno qui si inizia a contare dal nostro corrispettivo 11 settembre ed è composto da 13 mesi. Meglio, rimarrò nel 2013. Arriva la sera, placida e stellata come sempre, mi imbatto inevitabilmente in un gruppo di persone radunate attorno a un grande fuoco, mi unisco alle danze, ai canti, impugno una chitarra e suono con loro improvvisando delle ritmiche sopra le due parole: Etiopia-Utopia. Scocca la mezzanotte, tutti a nanna.

 

(Caro Mwangaza ora ti devo lasciare, proseguirò il racconto della seconda parte del viaggio la prossima settimana; dovrò affrontare la cittadina di Konso e le tribù autoctone della valle dell’Omo. Un saluto!)

Carlo Cecconi

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