
PARTE SECONDA
(Caro Mwangaza, come ti avevo promesso oggi riprenderò il racconto della mia avventura in Etiopia, eravamo rimasti a Shashamane, il Paradiso rasta. Buona lettura!)
Kisumu, 21.1.14
Purtroppo il tempo stringe e anche questa volta di malavoglia il mio viaggio deve procedere. Safari njema, si parte! Dopo aver contrattato a lungo sul prezzo con tutti gli autisti disponibili mi dirigo a Konso.
Konso è una tranquilla cittadina di due strade in croce, popolata da gente semplice, perlopiù contadini e vagabondi. Al suo arrivo sono attratto dalle morbide distese collinari che si perdono a vista d’occhio. Sono tutte fatte a terrazzamenti, qua l’agricoltura sembra essere “quasi” all’avanguardia, scorgo associazioni che promuovono metodi come la permacultura o ortisinergici, a un certo punto leggo un cartello: Centro Culturale Italiano. Mi fermo, mi presento, nessuno è italiano ma dopo qualche battuta riesco ugualmente a ottenere in cambio di una manciata di birr un posto letto nel pavimento di una capanna utilizzata come magazzino e esposizioni d’arte.
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La mattina seguente entro in un bar a due passi da lì e ordino come tutti i giorni il solito piatto tipico etiope: injera, una larga e sottile spiana fatta da un misterioso impasto di mais, nella quale vengono posati sopra vegetali, lenticchie e carne di capra. Incerto sul da farsi salta fuori Bereket, un allegro e disponibile uomo tuttofare del paese che si propone di farmi da guida. Bereket è scattante, energico, solare, pieno di risorse, mi illustra una cartina della zona e inizia a farci dei segni sopra in rosso, sento che mi devo fidare. Grazie a lui mi inoltrerò nella magica e inesplorata valle dell’Omo (una regione della Rift Valley), incontrerò le tribù Hammer, Benna, Arbore, gruppi etnici di gente che vive ai margini del mondo, in condizioni di vita primordiale, lontani dallo sviluppo tecnologico e scientifico moderno.
Mi aspettano giorni indimenticabili, faccia a faccia con esseri umani come me ma rimasti ben saldi a un tempo che non esiste più, incontaminato, fatto di istinto, di purezza, di spontaneità, di lotta frontale con le difficoltà di madre natura.
Ma le parole non potranno mai essere sufficienti, ti lascio con gli scatti della mia macchina fotografica, lei potrà raccontarti la mia esperienza molto meglio di quanto lo possa fare io.
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Uomini che testimoniano con il loro corpo un’arte ancestrale, senza tempo, un’indole seducente che si mostra nei suoi colori sgargianti fatti di perline e ciondoli fantasiosi. Ovunque pendono collari, orecchini, braccialetti, pelli di mucca, conchiglie, piume di uccello; le loro facce sono pitturate, così come le gambe, le braccia e i toraci; i capelli sono intrecciati e cosparsi di fango rosso. Non sanno una parola d’inglese ma faccio del mio meglio per comunicare, per avere un contatto umano con loro. Per prima cosa cerco di istaurare una lunga intesa di occhiate benevoli, poi inizio a disegnare sul pavimento con dei sassolini la mia faccia stilizzata con sopra tante spirali di ricci, scrivo affianco il mio nome indicando me stesso con il dito – tutti sghignazzano, credo che abbiano capito. Così mi offrono la loro birra fatta di mais e non so cos’altro versata su un gourd (il guscio legnoso di un frutto tropicale), ha un colore grigiastro con delle macchioline nere, ha un odore disgustoso, stomachevole, nauseante, sembra la pozione segreta di uno stregone. Disgraziatamente ormai è troppo tardi per Carlo, me l’hanno già posata tra le mani e non posso più rifiutarla, tra me e me elenco una lunga lista di violente imprecazioni lasciando trasparire ai miei nuovi amici solamente un grande sorriso di gratitudine. Poi giunge il momento fatidico: tappo il naso, incrocio le dita e butto giù tutto.
Passato questo rito d’iniziazione, l’attenzione ora passa ai miei occhiali, non ne riescono a capire la funzione, credono siano una sorta di decorazione tribale, un’arcaica maschera rappresentante un demone della cultura occidentale. Ammirano con stupore la loro forma, i suoi colori specchianti, la loro buffa capacità di cambiare aspetto a chi li indossa. Ingenuamente glieli faccio provare, ridono a crepapelle osservando il mondo distorto dalle lenti, ma dopo dieci minuti di cecità mi ritrovo a implorare pietà per riaverli indietro. Non avevo calcolato che quel gesto poteva essere inteso come un regalo, come un segno di apprezzamento per la loro ospitalità. Non so come ma riesco a farmeli restituire, potrò ancora vedere.
Conclusa l’infinita serie di strette di mano, ringraziamenti e adii agli indigeni è ora di tornare dritti a casa, si continua procedendo con la bussola puntata verso sud. L’unica tappa prevista è Moyale, esattamente al confine, il luogo topico della ragione del viaggio: ottenere un nuovo stampo keniota nel passaporto. Dopodiché tutti a bordo di un autobus scortato da soldati armati fino ai denti pronti a salvarci la vita in caso di attacchi e guerriglie – stiamo attraversando una zona ad alto rischio di rapine e rappresaglie, cerco di non farlo notare ai miei compagni ma me la faccio letteralmente sotto. L’autobus corre silenzioso, muto e grave, attento a tutto ciò che lo circonda, tutto potrebbe capitare. Dicono che ci sono briganti nascosti ovunque, anche tra l’erba ai margini della strada.
È difficile descrivere l’ultima tratta del tragitto, è peggio di qualunque pessima cosa che la tua immaginazione possa concepire. L’autobus avanza sobbalzando in ogni lato senza lasciare un secondo di tregua al mio coccige, vengo continuamente catapultato in avanti e indietro, a destra e a sinistra, cerco di aggrapparmi al sedile di fronte per evitare di sbattere la testa da qualche parte. La strada è completamente distrutta, è un succedersi interminabile di buche, fossi e crateri lungo una linea retta fatta di polvere e sassi. Stiamo attraversando il deserto Chalbi, a est del lago Turkana, lo stiamo penetrando tra le fitte tenebre della notte, senza perciò intravedere nulla dell’essenza di questo luogo – che d’altronde è fatto di nulla. Ciò nonostante ne sentiamo la sua piena presenza nelle cavità dei nostri polmoni, il veicolo avanzando si invade dello stesso terriccio che calpesta, tutto si accumula qui dentro in una grande nuvola scura e polverosa senza lasciare scampo a nessuno che si trovi al suo interno. È impossibile porci rimedio, tutti tossiscono disperatamente, la mia faccia pare ricoperta di fuliggine, sono nero e questa volta non dico in senso metaforico. A tutto ciò si aggiunge la canicola ardente e insopportabile che prosciuga ogni ultima energia rimasta, mi sento svenire.
Ma non basta, da questo momento in poi scenderà dal cielo una pioggia di eventi sfortunati che trasformerà il mio ritorno in un calvario senza speranze, quattro interminabili giorni dentro una scatola di latta con quattro ruote che sembreranno un’agghiacciante eternità. Perviene la malaria, poi i ladri notturi di documenti e portafogli, blocchi di polizia e relative mazzette (qua è una prassi normale, un vicino mi dice: “non sono corrotti, hanno semplicemente fame e quello è il loro stipendio”), poi assisto a drammatici conflitti familiari tra i passeggeri, compagni di viaggio persi per strada, sono afflitto da gravi infiammazioni gengivali, attacchi di diarrea, vomito, e la lista non finisce qui. Un africano ridacchiando mi urla dal fondo dell’autobus: “When a white man is around, soon or later the troubles will arrive!” Rido anch’io, in fondo non ha tutti i torti. A un certo punto, preso dalla disperazione più assoluta, mi viene un’idea brillante per ridare vita nuova allo sciagurato autobus, raduno un gruppo di kenioti moribondi e gli insegno a cantare “Bella ciao”. L’autobus si infiamma.
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Dopo qualche ora intravedo dal finestrino un enorme elefante, in quell’attimo il gigante perfora il mio sguardo, possiede degli occhi calmi e torpidi, mi salutano e mi proteggono. Per tutto il resto del viaggio rimango incollato al finestrino a scrutare tutto ciò che passa accanto a me, sembra che l’Africa abbia deciso di espormi tutte le sue bellezze, miglio dopo miglio si esibisce in tutte le sue diversità di paesaggi, di vegetazione, di animali, di situazioni totalmente estranee a me.
Ritornerò a Kisumu molto presto, esausto, malato, senza forze, stremato, completamente a pezzi – pienamente soddisfatto di tutto ciò che ho vissuto. Ti confesso una cosa Mwangaza, in questi giorni ti ho pensato, sarebbe stato bello poterti avere al mio fianco, poter condividere con te tutte le meraviglie donatemi dell’Africa.
Un abbraccio
Carlo
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Caro Carlo, leggendo le tue parole mi sembra di poter scorgere quei sassi e quella polvere dai tuoi stessi occhiali. Vorrei poterti essere accanto come il tuo Mwangaza pozzo senza fondo in una terra senza padroni, proprio come te. Mi sorprendo ad emozionarmi, a piangere, a soffrire per le difficoltà che sicuramente avrai affrontato con la tenacia che ti contraddistingue. Ho riso immaginando te, i tuoi ricci e il tuo sorriso sobbalzare in quell’autobus che va contro il destino. When a white man is around, soon or later the troubles will arrive…but when Carlo Cecconi is around, spring and sunshine… Leggi il resto »