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Pesaro, 30.5.2014

 

Caro Mwangaza,

sono tornato a casa ormai da più di un mese, intendo dire nella mia vera casa, in Italia a Pesaro, e la verità è che prima della mia partenza non ho mai trovato il coraggio di scriverti e darti un ultimo saluto.

Gli ultimi giorni in Africa e il periodo subito successivo sono stati completamente destabilizzanti, un misto di sentimenti contrastanti di dubbia certezza.

Qualche tempo fa, disfacendo le valigie ancora naufraganti negli angoli remoti della mia camera, ho ritrovato degli appunti di alcune lettere che avrei voluto spedirti ma che non ho mai fatto e a questo punto forse non ha più senso fare.

 

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Ti vorrei però trascrivere solo una di quelle riflessioni:

“Stranamente questa mattina mi sono svegliato particolarmente presto, un senso di irrequietezza e nausea avvolgeva il mio sonno fino al punto di avermelo spezzato. Un sole debole sfumava nelle pareti dall’intonaco completamente scrostato e poco a poco iniziava a entrare tra le fessure della porta conquistando tutte le ombre della stanza, in quel momento era come se avessi la netta convinzione che ancora tutta l’Africa stesse dormendo. Ed era esattamente così, devi sapere che qua tutto si muove in maniera sincrona, gli africani vanno a dormire tutti alla stessa ora, si svegliano tutti davanti alla medesima tazza di tè con latte e affrontano assieme le difficoltà della giornata. Un mondo che si plasma dal volere di un’identità collettiva ampia e diffusa.

Ormai in pantofole cerco a stento di compiere i primi faticosi passi in direzione del tavolo sperando in qualche avanzo di cena, dunque addento il mio solito avocado, poi il mio sguardo si dirige alla finestra, dove fisso i movimenti immobili di una mucca che fruga curiosa tra un mucchio di spazzatura variopinta e luccicante. Ho un leggero cerchio alla testa e una confusione generale che si riversa in ogni singola parte del mio corpo. Una leggera scossa muove un tasto dolente collocato in un punto non identificato del mio stomaco, sospiro – credo di essermi ammalato di nuovo.

 

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Questa volta però non si tratta di malaria, tantomeno di scabbia, non c’è medicina o rimedio a quello che mi sta per capitare. E pensare che prima di partire avevo riempito il mio libretto sanitario con una lista interminabile di vaccini dei quali non conoscevo neppure l’esistenza, ero diventato un collezionista di punture e pillole fino al punto di trasformarmi in una specie di bomba antibatterica umana pronto a ogni assurda evenienza o improbabile pestilenza. Tutto inutile, che stupido che sono stato, mi sono dimenticato il più prevedibile dei pericoli, proprio quello di cui tutti parlano ma che nessuno sa come si manifesta. Il più delle volte suona come una romantica leggenda metropolitana.

 

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Credo che tu abbia già capito a cosa sto alludendo: parlo del famigerato mal d’Africa.

La cosa straordinaria è che mi ha colpito prima del previsto, prima ancora del ritorno a casa mi sono proiettato nel mio inevitabile futuro, nelle abitudini del mio vecchio mondo.

Tutt’a un tratto mi chiedo: ma dove andrà a finire tutta l’energia che ho raccolto in questi sei lunghi mesi? Riuscirò a portarmela dentro o svanirà assieme alla terra che sto per lasciare? Dove andranno a finire i sorrisi incontrati, la carica esplosiva di gioie spontanee? Dove andrà la semplicità di una giornata che inizia e finisce nel suo naturale trascorrere di eventi e silenzi? E che ne sarà di quelle capanne di fango mezze affossate, quelle baracche sbilenche in lamiera, quelle stradine impolverate e sudice, quei monti in lontananza, quelle rocce imponenti, quegli sconosciuti insetti malefici, quella folla caotica, chiassosa e disordinata, così come quelle tranquille vedute verdi? Dove andrà la perfetta pienezza di tutte le mancanze materiali che compongono un vivere essenziale, lontano da confort, lamentele e futili bisogni? Dove andrà a finire la sana spensieratezza del quotidiano? Dove andranno gli amici, gli amori, le facce intraviste e le nostre parole?

 

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La triste verità è che sarà impossibile continuare a vivere così in altri luoghi, a malincuore ho capito che siamo parte integrante di quello che ci circonda, assumiamo le sue forme e i suoi colori, non siamo altro che dei camaleonti. Non siamo né liberi né indipendenti, siamo convinti di esserlo ma se ci potessimo osservare dall’esterno capiremmo che è un idiozia, vedremmo sempre l’imprescindibile vincolo che ci impone una certa società. Tutto ci ruota attorno, ci manipola, ci invade e ci plasma con i sui principi e giudizi.

Ed è così che da ogni differente angolatura del mondo scorgiamo in noi sempre persone nuove.

La cosa più avvincente di una lunga permanenza in una terra lontana e opposta alla tua non è tanto la scoperta di nuove culture e tradizioni, quella potremmo leggerla tranquillamente sui libri o dedurre da una breve vacanza turistica, ma piuttosto è il fatto di mettersi in gioco in senso fisico ad altre logiche, è il fatto di rapportarsi a nuove regole apparentemente strampalate che si infrangono e si frantumano contro le regole di sempre, è il fatto di dover cambiare per forza o per amore i propri occhi, dover capovolgere d’un tratto le proprie pulsioni. L’esperienza risiede nell’intimità più profonda, nello scardinamento di alcuni nostri limiti che erano a noi ignoti prima della partenza, nello scoprire nostre nuove potenzialità, nuovi caratteri, visioni e sfumature – tutto risiede in un’invisibile e infinitesimale trasformazione.

Ecco, tutto ciò che ho detto, mischiato con una buona dose di nostalgia e ricordi indelebili, è quello che io definisco mal d’Africa.”

 

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Così chiudevo il paragrafo, penso che non ci sia null’altro da aggiungere. Ora le mie giornate stanno piano piano assestandosi secondo le vecchie maniere e il riadattamento sta assumendo di nuovo un senso. Credo che l’impatto del ritorno sia stato troppo veloce, l’aereo mi ha fiondato da una parte all’altra dell’emisfero senza lasciarmi gustare nessun’altra tonalità intermedia fra i due mondi, l’atterraggio ha bloccato bruscamente l’espressione di un naturale fluire. L’ho sempre detto: bisogna viaggiare via terra.

Poi i giorni passano, il corpo e la mente reagiscono, poco a poco mi riassesto e senza neanche accorgermene vedo l’Africa annebbiarsi, la memoria si offusca, così quei modi di fare, gli atteggiamenti ormai assimilati svaniscono nel nulla. Gli affetti prendono le dovute distanze, i paesaggi sono pallide fotografie.

È un processo istintivo di riorganizzazione generale, è l’assimilazione graduale di uno shock culturale vissuto contro il proprio volere e troppo repentinamente.

Quell’esperienza che tenevo stretta tra le mani improvvisamente chiude in se stessa i suoi confini, si isolata da me, diventata qualcosa di estraneo. Mi pare che sia successo tutto quanto in un’altra vita, o chissà, tantissimo tempo fa, oppure in un sogno.

Eppure sei lunghi mesi sono passati, sono riuscito ad arrivare sano e salvo fino in fondo, fino all’ultimo giorno, fino a quando mi sono accorto di aver esaurito il mio tempo, fino a quando ho capito che per me era ora di voltare i tacchi, di essere giunto al capolinea, mentre una vocina diceva: “Carlo il progetto è concluso, si va a casa, bye bye, it was a pleasure, you have to go, good luck” – in altre parole: game over.

Puff, tutto si vaporizza in una nuvola di fumo e dritti al punto di partenza: Pesaro.

Dannazione, lo sapevo sin dall’inizio che sarebbe andata a finire così, ma per qualche strana ragione mai ho pensato alla fine – pareva fosse eterna. La fine, eccola, si sporge da dietro l’angolo, miserabile.

 

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Aspetta, ancora il peggio deve arrivare. L’Africa che avevi dentro, con le sue difficoltà, significati e valori, al tuo ritorno prende inspiegabilmente un’altra piega: diventa un susseguirsi di beffe, risate, racconti assurdi, una barzelletta, le vicende si trasformano in fiabe fantastiche da raccontare agli amici al bar – che merda. L’Africa è impossibile da raccontare, quando l’abbandoni è più incomprensibile di quando ancora non la conoscevi.

29 marzo 2014, Milano: all’atterraggio mi sono svegliato con il fiato alla gola, niente era accaduto veramente. Considero il mio viaggio ovattato da un mistero impenetrabile, ti confesso di non essere mai stato in Africa.

 

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Bene, detto ciò è meglio che ti saluto. Vorrei trovare pretesti per scriverti ancora, vorrei lasciarti altre storie, vorrei dirti come vanno le cose, di cosa sia cambiato, di ciò che è rimasto, di cosa rimpiango. Ma credo che mai lo farò, ora ho altro per la testa, ho molte cose da fare e sono di fretta. Ora ho molta fretta.

Un caldo abbraccio,

Carlo

 

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1 commento

  1. Tutte le foto mi sembrano bellissime. Non parlo dell’aspetto ‘estetico’ o artistico. Ma di ‘quell’altro’. Sono le foto dell’innamorata. Ti sei innamorato dell’Africa. Ti capisco. Grazie.

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