Gentilissimo sig. Pereira, caro amico mio,
alcuni anni addietro, presso l’Ordine dei Medici della mia città. si tenne un corso di aggiornamento su argomenti riguardanti l’etica e la deontologia professionale.
Nello svolgimento del corso fu proposta ai partecipanti una sorta di esercitazione: furono divisi in piccoli gruppi di tre/quattro persone che dovevano discutere e dare una risposta al seguente quesito:
“Siete di guardia ad un Pronto Soccorso, nel cuore della notte, si presentano tre pazienti, tutti e tre egualmente a rischio di vita, dolenti e bisognosi del vostro immediato intervento. Avete la possibilità materiale di trattarne solo uno alla volta e siete consapevoli che gli altri due nel frattempo potrebbero morire. Quale tratterete per primo? E perché?”

I medici discussero, si interrogarono. Tutti si lamentarono della terribile sfortuna di trovarsi nella situazione descritta nell’esercitazione.

Taluno, in conclusione, affermò che avrebbe concentrati i propri sforzi terapeutici sul più giovane in quanto soggetto con maggior aspettativa di vita davanti a sé.
Talaltro cercò di capire quale paziente avesse la patologia più grave per dedicare a costui il massimo delle cure.
Alcuni, viceversa, sostennero che si sarebbe dovuto curare quello con la patologia meno grave in quanto più facilmente avrebbe risposto in modo positivo alle terapie.
Altri ancora sostennero che era legittimo dare la precedenza a chi sarebbe potuto uscire dalla patologia in atto più integro e senza gravi menomazioni.
E così via congetturando.

Il formatore scartò tutte le ipotesi.

La posizione di chi voleva curare per primo il più giovane venne criticata perché figlia di una visione, tutta contemporanea, di un valore intrinseco della gioventù. Altre epoche e altre società, diedero e danno maggiore valore al patrimonio di esperienza e saggezza possedute dagli anziani.
Anche l’idea di favorire chi si presume debba vivere più a lungo si basa su una discriminante soggettiva culturale e ideologica perché, disse, se è vero che il giovane ha ancora molto da godere della vita, l’anziano alla vita, ed alla società, tanto ha dato. E valutare più una cosa dell’altra é una presa di posizione “non oggettiva” e come tale fortemente opinabile.

Che dire, poi? Curare prima il più grave, in una situazione in cui -come da premesse- il rischio di morte è uguale per tutti?

Ritardare, viceversa, le cure a chi potrebbe uscirne menomato (che so, senza una gamba) rispetto a chi potrebbe guarire con restitutio ad integrum?
Perché? La vita di un amputato ha meno valore? O vale meno la pena di essere vissuta?

Su questo punto in specifico il formatore richiamò la riflessione dei corsisti: l’intervento delle nostre preferenze personali, del nostro individuale sistema di valori, inquina scelte che devono rimanere neutrali, “oggettive”, imparziali, perfino impersonali.
D’altronde, chi tra noi che ha avuto la fortuna di raggiungere un’età oltre alla giovinezza e all’età adulta, si rende conto di essersi pian piano adattato a vivere in modo soddisfacente una vita con delle limitazioni che qualche decennio orsono gli sarebbero parse insopportabili. Ed anche ora a noi la vita continua ad essere preziosa.

E quindi, che fare? Che criteri adottare?

La risposta del formatore sollevò non poche perplessità:
“A parità di rischio di morte e di dolore, occorre curare per primo chi per primo si presenta al pronto soccorso. Il medico non può e non deve mai, in nessun caso, sostituirsi -con le sue scelte- al destino.”

Qualsiasi scelta del medico che introduca un elemento di “selezione” sulla base di una qualsiasi caratteristica del soggetto da curare si configura come discriminazione.
Una discriminazione che oggi può escludere chi è più malato o più vecchio, domani chi viene giudicato un peso per la società, poi ancora chi è meno in grado di produrre reddito (cioè il più povero) o, perché no? quello brutto perché risultando meno attrattivo si gode meno la vita, e poi gli emarginati, i “diversi”, ecc., ecc., ecc.

Per definire tale atteggiamento il formatore non esitò ad utilizzare un aggettivo molto, molto significativo e, ne son sicuro, non lo fece a cuor leggero:

“Nazista”.

Ecco, amico mio, non credo che si possano usare altre parole per definire la disposizione di rinchiudere nel Pio Albergo Trivulzio, in quel di Milano, persone ammalate a rischio di morte, di infettare e di essere infettate, sulla base del fatto che avevano “più di settantacinque anni”.

Ahinoi, mala tempora currunt!

Con immutato affetto,
il suo devoto
Norman Bates.

P.S.: Qualche tempo fa, quando si vociferava di tenere in quarantena domiciliare gli ultrasessantacinquenni (ipotesi -per altro- torna a circolare a proposito della cosiddetta fase due), un caro parente sessantaseienne mi disse:
“Siamo troppo giovani per andare in pensione, ma troppo vecchi per andare in giro liberamente. Andiamo bene solo se e quando ancora abili a lavorare, ma se ci guastiamo non vale nemmeno la pena di aggiustarci. Ecco che cosa è la rottamazione!”

3 Commenti

  1. Caro Dudù, mi piace vincere facile se scommetto che né negli Stati Uniti né in Svezia le “linee guida” verranno applicate rispettivamente a Donald Trump e a Carlo XVI Gustavo (entrambi classe 1946), né ora né mai?
    Mio caro, quando ci sono discriminazioni, sono (quasi) sempre di classe.

    • Gentile Norman, infatti mi chiedo tutti i giorni perché Dybala e signora abbiano potuto fare i tamponi mentre a tanti italiani malati e bisognosi, nonché appartenenti alla classe sbagliata, questo sia stato negato.

  2. “A parità di rischio di morte e di dolore, occorre curare per primo chi per primo si presenta al pronto soccorso. Il medico non può e non deve mai, in nessun caso, sostituirsi -con le sue scelte- al destino.”
    A occhio e croce quel formatore dovrebbe fare una bella tournée in giro per il mondo. Infatti in questi giorni ho letto che in diversi paesi le autorità hanno dato linee guida ‘naziste’ ai medici. Dai dati che ho questo è accaduto per certo negli Stati Uniti e in Svezia.

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