Mi metto il vestito buono, perdo qualche minuto in più per mettermi il mascara e cerco una sigaretta prima di ricordami che non ho mai fumato seriamente. Metto il cd nel lettore, il cassettino si chiude lentamente e spingo play. In penombra le note diventano quasi tangibili. Non volevo arrivare impreparata a questo anniversario. Il 17 luglio 1959 muore a New York Lady Day meglio conosciuta come Billie Holiday. Massima essenza della femminilità nonostante il nome maschile.
Eleanor Fagan Gough nasce a Baltimora nel 1915 ed è il frutto di una notte d’amore fra il sedicenne Clarence Holiday suonatore di banjo, da cui prenderà il cognome d’arte e la tredicenne Sadie Fagan. Leggenda vuole che il nome Billie sia un soprannome che le attribuì la madre a causa dei suoi atteggiamenti maschili.E’ così che mi piace immaginarla quando l’ascolto.
La vita di Billie non è una vita di quelle facili, di quelle con Natali da ricordare e compleanni ai quali invitare gli amici per soffiare sulla torta. Ancora molto piccola Billie viene affidata ad una parente dalla madre che nel frattempo si è trasferita a New York in cerca di fortuna. Qui subisce continue violenze sia fisiche che morali fino all’età di 10 anni quando avviene il suo primo stupro. Le cose non migliorano neppure quando decide di raggiungere la madre a New York dove è costretta a prostituirsi per poter sopravvivere. Nonostante la vita che conduce, l’orecchio di Billie diventa sempre più raffinato grazie alla tenutaria del bordello che le lascia ascoltare Luis Armstrong e Bessie Smith nel grammofono del salotto. A dimostrazione che la ricerca del “Bello” è una cosa innata.
Durante una retata della polizia Billie viene arrestata per prostituzione, dopo questa esperienza decide di chiudere con questa vita e si reinventa come ballerina nei locali notturni anche se, Billie il maschiaccio, non ha la grazia delle altre ballerine ed è troppo orgogliosa (o forse timida) per prendere le banconote con le cosce come facevano le sue colleghe. Da qui il soprannome Lady che diverrà poi Lady Day per assonanza con il cognome Holiday. La svolta arriva nel 1933 quando il produttore John Hammond assiste ad un’esibizione in un locale malfamato di New York. Lo stesso anno Billie incide, insieme all’orchestra di Benny Goodman, i primi due suoi dischi che però passano inosservati. Billie ha solo 18 anni. Il vero successo arriva nel 1935 grazie ad un contratto con il pianista Teddy Wilson che fa conoscere Billie al grande pubblico. Da qui in poi iniziano le numerose collaborazione con i grandi nomi del Jazz con la J maiuscola come Artie Shaw, Lester Young, Coleman Hawkins. Dal 1936 inizierà ad incidere dischi con il suo nome d’arte per l’etichetta Vocalion.
Durante gli anni ‘30 l’America è attraversata da forti tensioni razziali che relegano i neri a certe zone malfamate delle città, con tanto di locali con entrata separata per i bianchi. Sono gli anni in cui operano i Black Legion, forse il ramo più violento del Ku Klux Klan. Nonostante il successo, Billie deve aspettare chiusa in camerino prima di ogni sua esibizione e non può utilizzare l’entrata principale a causa della sua pelle. Senza curarsi delle tensioni che attraversavano la società del periodo, nel 1939 Billie sfida la censura cantando Strange Fruit. Lo “strano frutto” di cui parla il testo è il corpo di un nero ucciso e appeso ad un albero a monito per gli altri “negri”, pratica tipica del Ku Klux Klan insieme all’incendio della croce. La leggenda vuole che alla prima esibizione di “Strange Fruit” il pubblico rabbrividì . L’applauso partì solo dopo lunghi secondi di silenzio nonostante Billie avesse finito di cantare. Billie non poté includere la canzone nel suo repertorio perché molti locali si rifiutarono di farla eseguire.
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Nonostante il successo Billie vive ancora una vita inquieta con rapporti sentimentali difficili e una continua dipendenza da droghe e alcool che la porteranno di nuovo in carcere per 8 mesi. La vita di Billie è una continua ricerca di protezione e di amore, un continuo inseguimento di un ideale di “Bello” irraggiungibile. Una Cenerentola dalla voce roca che non vedrà mai arrivare il suo principe azzurro, perché quel principe è troppo perfetto per essere reale come recitano le parole di The Man I love “Someday he’ll come along. The man I love […] Maybe I shall meet him Sunday. Maybe Monday, maybe not. Still I’m sure to meet him one day”, scritta da Ira Gershwin su musica del più famoso George Gershwin, resa celebre dalla intensa interpretazione di Lady Day.
Lei stessa è la dimostrazione che la perfezione in senso lato non esiste. Il suo corpo è sgraziato e la sua voce è ruvida eppure perfetta. Questo mi affascina della figura di Billie. Il suo essere massimo esempio di Donna ed esserlo in modo “sgraziato”, di essere Billie il maschiaccio e allo stesso tempo Lady Day con la sua gardenia bianca fra i capelli o appuntata su bellissimi vestiti da sera. La continua attesa di un amore che passa fra le sue parole, fra le sue note come se quell’amore esistesse già, bisogna solo saper aspettare. Cantare per il “Bello” senza rendersi conto di starlo già regalando al mondo. Ascoltatevi Good Morning Heartache, Body and Soul, Lover Man o la meravigliosa Don’t Explain possibilmente in vinile, possibilmente di sera, possibilmente in silenzio.
Dopo una carriera che la porterà in giro anche per l’Europa con una tappa pure in Italia dove dovrà interrompere la sua scaletta a causa di un pubblico impreparato che non apprezzerà la sua prima esibizione, Billie morirà per epatite a soli 44 anni, controllata a vista da un agente della narcotici. Sola di quella solitudine che le donne sanno far diventare rifugio. Di quelle solitudini che ti arredi piano piano perché sono la casa in cui rientri ogni sera sfinita. Un porto sicuro in cui attendere il suo Lover Man.
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La storia perfetta per una stella. Insostituibile.