1apertura

Un diluvio sovrannaturale accompagna il mio arrivo alla stazione di Arequipa. Ciò non è sufficiente, comunque, per farmi credere che Dio esista. Fatto sta che dall’inizio del viaggio questa è la prima volta che sono felice di essere a bordo di un autobus sudamericano. Yoga non risponde al cellulare. Ma non è colpa delle cinque incredibili raste appoggiate sulla sua testa, temo proprio che il problema venga dall’interno. Intanto un prepotente sole prende il controllo della situazione, regalandomi uno straordinario panorama della Città Bianca. Ossia, di una delle tante “città bianche” presenti in Sudamerica. Per le strade di Arequipa si respira un clima montano assai piacevole. La gente non sorride ma ha uno sguardo tremendamente intenso. Bevo un frullato di quínoa in Plaza de las Armas e, successivamente, prendo una strada secondaria che si dirige al monastero di Santa Catalina. Ne ho sentito parlare troppe volte per non approfittarne. Dentro il container che con molta fantasia viene definito “biglietteria” siede un omino baffuto. Vuole più del doppio (80 Soles) di ciò che so di preciso essere il costo dell’entrata (35 Soles). Brighella. In poche battute vinco la causa, sono dentro. Una maestosa arcata in stile mudejar attende solo di essere attraversata e contemplata.

Non sono sicuro di poter scattare foto, ma dopo pochi passi già me ne dimentico e, tutt’attorno, prende vita una delle leggende più intriganti della storia del continente. Dopo quella del grande Emilio, ovviamente.

2arcata

Il monastero di Santa Catalina da Siena venne fondato nel lontano 1579 da Doña María de Guzmán, una nobile vedova spagnola che decise di ritirarsi dal mondo per concentrarsi sulla propria fede in estrema tranquillità. Versione cattolica, volume uno.

In pochi anni l’edificio si riempì di monache che, come Maria, avevano deciso di dedicarsi al culto estremo.
Si sviluppò, quindi, una vera e propria città dentro la città.

La maggior parte dei cinque ettari della sua superficie era costituita da orti, lavanderie, strade, panifici, cimiteri ed un orfanotrofio. Inoltre era completamente attrezzato per la pioggia grazie ai suoi portici, nonché ai numerosi canali che permettevano la raccolta dell’acqua piovana. Erano presenti circa un centinaio di stanze, ciascuna ben isolata dall’altra, in cui le monache trascorrevano la maggior parte del tempo.

Nel periodo di massimo splendore il monastero arrivò ad ospitare più di 450 donne delle quali, però, solo 180 erano monache. Tutte di origine europea. Il resto della popolazione era costituito da donne sudamericane di bassissimo livello economico le quali, in cerca di un riparo ed un piatto caldo, si offrivano per servire quotidianamente le religiose. Versione cattolica, volume due. Si stima che ogni monaca disponesse di ben quattro schiave personali, obbligate a riverirla in qualsiasi momento della giornata.

Ogni domenica tutte le religiose si riunivano nella piazza principale per pregare, conversare e scambiarsi regali. A questa piccola città non mancava nulla, per il momento. L’accesso al monastero era esclusivamente riservato alle secondogenite di famiglie nobili europee, le quali, non prima del raggiungimento del loro dodicesimo anno di vita, dovevano pagare un prezzo di 2400 dobloni d’oro (circa 50.000 euro) per garantirsi un ruolo all’interno di questa mini-doppia-società. Le donne senza i suddetti requisiti potevano comunque prendere parte all’ordine di monache, ma venivano automaticamente passate in seconda classe, perdendo ogni potere decisionale (questa forma di privilegio scomparve solo nel 1871, anno nel quale tutte le monache vennero raggruppate in un’unica classe sociale).

Nell’orfanotrofio del convento risiedevano trovatelli di ogni genere, ma al compimento del sesto anno di vita ogni bambino di sesso maschile veniva trasferito in un qualsiasi seminario del paese al fine di essere convertito in un prete. Le femmine restavano in convento per coltivare un predestinato futuro da monache.

3fontana

Per diversi secoli gli abitanti di Arequipa credettero che le strade del convento fossero pavimentate d’oro. Non si spiegavano dove finisse lo straordinario capitale che ogni nobil donna pagava per prendere parte al collettivo. Nessuno era mai riuscito a superare le altissime bianche mura dell’imponente edificio, ma per le strade della città iniziarono a tramandarsi strane leggende. Apparentemente queste monache vivevano una vita tutt’altro che religiosa, ben lontana dalla clausura, bensì totalmente orientata all’ozio e alla lussuria. Si vociferava di numerosi banchetti in cui aristocratici, musicisti ed artisti di ogni genere, ovviamente tutti di sesso maschile, si lanciavano in notti sfrenate all’insegna del divertimento puro. In poche parole il ricevimento iniziava quasi sempre con un concerto, un dibattito religioso o una mostra d’arte, un pretesto per terminare successivamente in una suntuosa festa di grandiose proporzioni. Ecco, l’ho detto con parole mie. Anzi no, l’avessi fatto probabilmente avrei sostituito la parola “festa” con un’altra di maggior rilievo. Si vociferava, inoltre, dello scheletro di un neonato che venne murato al fine di occultare il risultato tangibile del più grave dei peccati che una monaca possa commettere.

4latino

L’eco di questi pseudo-scandali raggiunse presto il quartier generale (Vaticano) e venne accolto con sgomento a tal punto che l’allora papa Pio IX ordinò ad una devota Dominicana di fiducia, tale Sorella Giuseppina Catena, di riformare l’intero ordine del monastero. Arrivata di nascosto ad Arequipa, Sorella Giuseppina non riuscì a credere ai propri occhi: tutte le leggende metropolitane riguardanti il monastero vennero confermate in poco tempo. Candelabri in argento puro, tappeti di valore inestimabile, lampadari di cristallo ed intere arcate in oro massiccio furono solo alcune delle cose che portò in Vaticano al termine della sua missione. La suora, o meglio, il tenente colonnello, liberò tutte le schiave (le donne che nella versione cattolica venivano ospitate, nonché tolte dalla strada, al fine di salvare le loro vite) ed introdusse un severissimo regime basato esclusivamente su preghiere, digiuni ed autoflagellazioni. Ogni contatto con il mondo esterno venne bruscamente interrotto. Fu solo nel 1970, quando il sindaco di Arequipa ordinò l’installazione di elettricità ed acqua corrente all’interno del monastero, che le monache ebbero l’opportunità di osservare membri del mondo esterno, ovvero le persone normali, mentre effettuavano le modifiche previamente progettate. Da quell’anno il monastero venne aperto al pubblico e tutt’oggi si può visitare dalle otto della mattina alle cinque del pomeriggio. Ovviamente diffidando dal prezzo imposto da qualsiasi uomo baffuto presente in biglietteria.

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Oggi nel monastero vivono circa una cinquantina di monache, totalmente isolate dal circuito turistico. Il mio pensiero va ora a quelle coraggiose-povere-donne. Quelle che furono e quelle che sono le monache di clausura del Santa Catalina, nonostante durante la mia visita non ne abbia vista alcuna. Ma forse da qualche nascostissimo passaggio mi stavano osservando, tramite uno spiraglio, mentre trotterellavo tra gli splendidi portici dell’edificio. Emozioni. Chissà se riusciranno mai ad amare qualcosa che non sia invisibile, intangibile, imprevedibile, talvolta ipoteticamente gassoso. Chissà se nel loro minuscolo passaggio sulla storia del pianeta poseranno mai la propria bocca su labbra cariche di consenso, di stima, di energia positiva. Chissà se potranno mai scoprire l’emozione di una propria creatura. Chissà se saranno mai libere di confondersi, di perdersi, di pagare i propri errori per evitare di ripeterli in futuro. Chissà se saranno mai in grado di elevarsi, da sole, ad esseri umani.

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