La pioggia che non arriva ed il virus che arriva vanno di pari passo. La siccità e la pestilenza, le disgrazie non vengono mai da sole, le piaghe d’Egitto erano sette.
Quel cielo sempre uguale dietro il vetro della finestra d’ospedale, finto, come una quinta mi riempie di inquietudine, spegne la speranza. Un abete si sbatte in qua e in là, segno che c’è un po’ di vento. Il davanzale è pieno di cacca di piccione. Ogni tanto capita qualche piccione, a volte si fermano sul davanzale.
I piccioni tubano. Qui ci intubano e loro fuori che tubano.
Sono lì con i miei stupidi giochi di parole che guardo fuori dalla finestra, contemplando la siccità e la goffaggine dei piccioni quando arriva l’infermiera:
“Non è possibile! Un altro che non respira più!”
Si avvicina al letto, dietro la tendina tirata che ci separa.
“Non respira più! Ne ho appena trovato uno nella 20! Non è possibile”
Un’altra voce femminile, dietro la tendina le dice:
“Sarai tu che porti sfiga!”
Ci sono quelle persone che cercano sempre di sdrammatizzare, anche nei momenti più difficili.
Si danno da fare per ricomporre il corpo sul letto. In silenzio. Poi guardano il nome sul braccialetto con il codice a barre che mettono a tutti quelli che ricoverano. Più che un codice a barre sembra un codice a bare. Una pronuncia a voce alta il nome, l’altra lo scrive.
Adesso devo fare l’ECG… Con questo cazzo di arnese che non funziona… Si muove, anche se dovrebbe star fermo.
Poco dopo rientra con l’elettrocardiografo.
Prova. Non funziona, i pennini vanno per conto loro. L’infermiera è disperata ma composta, si capisce che vorrebbe imprecare, bestemmiare, ma non profferisce parola, si limita a sbuffare.
Si sente la voce femminile di prima, quella che le aveva detto che portava sfiga:
“E’ morta anche la 19!
Non è possibile! Tre morti in tre camere vicine! Non è possibile!”
Non dicono altro. Per rispetto al morto… per rispetto a me che sto impietrito dietro la tendina.
Fa un altro tentativo con l’ECG.
Una voce maschile interviene decisa:
“Lascia stare. Magari dopo non è che danno la colpa a te! Fai venire un ECG che funziona da un altro reparto!”
Escono. L’infermiera torna un paio di volte a provare l’ECG. Poi lascia perdere.
Rimango solo con il vicino di letto morto.
Al mattino presto ho sentito i suoi rantoli, delicati, diversi dal solito. Ho pensato che stesse meglio. Che idiota che sono.
Tirandomi su sul letto riesco a vedere il suo volto, dallo spazio tra la parete e la tendina. E’ un bel volto, brizzolato, severo ma non accigliato.
Sono alterato. La cosa che più mi atterrisce è la solitudine di quella morte, senza nessuno vicino, con i parenti probabilmente in isolamento. Destinato a rimanere per un po’ in qualche deposito di salme in attesa di un posto per la cremazione.
E’ morto di fianco a me, impegnato nelle mie lotte solitarie, incapace di essergli di una qualsiasi compagnia.
Rimango solo con lui tutta la mattina.
A un certo punto ho un impulso che non mi sarei mai aspettato, agnostico come sono sempre stato.
Sento il bisogno di benedirlo.
Mi alzo in piedi, mi avvicino alla finestra ma mi porto verso la parete di fondo. Vedo bene il suo volto:
“Se c’è un cielo per chi ha troppo sofferto, questo cielo è per te.”
Detto questo spalanco la finestra per fare entrare il cielo o per far andare il mio vicino verso il cielo.
Manovra improvvida.
La maniglia mi rimane quasi nelle mani, è attaccata al telaio con delle viti posticce e del nastro adesivo, è difettosa. Però la finestra si apre, il cielo terso e siccitoso entra, con l’aria fredda, spero che lo spirito del mio vicino colga l’attimo e voli verso il cielo, pochi secondi e richiudo la finestra.
Nonostante tutto la morte non esce da questa stanza.
– Vedi anche Stralcio 1 e Stralcio 2 –
Ho voluto raccontare la mia esperienza e il mio ricovero in ospedale per COVID-19 scrivendo questa Rantologia. Volete leggerla? Ecco come fare:
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Michele Gianni