Nascita di VenereNell’immaginario collettivo l’acqua è sempre stata associata alla femminilità proprio a sottolineare la sua fecondità. L’acqua come Grande Madre e “origine di tutte le cose” come disse il filosofo greco Talete, acqua che da alla luce Venere, acqua luogo di nascita come il liquido amniotico che avvolge il bambino nel pancione, acqua che cade a dissetare la Terra, acqua che purifica il peccatore. Il tutto in un susseguirsi di miti e di leggende che collegano direttamente la figura femminile a quello che oggi è il più dibattuto “bene comune”.

Uno dei tanti simboli che ci rappresenta è l’argomento di discussione del prossimo referendum che si terrà il 12 e 13 giugno assieme al referendum sul nucleare e sul legittimo impedimento. Per riassumere e usando questa simbologia, così come il corpo delle donne è diventato mercanzia da scambiare per ottenere soldi e potere, oggi si vuole trarre profitto anche attraverso quello che è un diritto universale dell’uomo: l’acqua. Una sorta di induzione alla prostituzione, chiamata privatizzazione, di una risorsa necessaria alla vita.
La privatizzazione dell’acqua in atto nel nostro paese da più di 20 anni, sta rendendo pura merce quello che l’ONU, nella risoluzione del 29 luglio 2010, ha definito “un diritto umano universale e fondamentale”. E mentre l’Europa rivede le sue politiche di privatizzazione, tornando ai servizi pubblici, da noi si continua sulla strada del mercato. A noi piace andare controcorrente.

Ma cos’è in poche parole questa “privatizzazione”? La privatizzazione dell’acqua, sancita definitivamente con il decreto Ronchi del 2009, prevede che la gestione di un bene demaniale (cioè della Stato, cioè nostro) dovrà passare da società pubbliche a società private o comunque possedute da privati al 40%. Si dice che il privato “faccia meglio” in quanto sottoposto alle dure leggi della concorrenza e del mercato. Del resto se non rimaniamo soddisfatti di un prodotto, non lo compriamo più, scegliendo un’altra marca. Dobbiamo però ricordarci che stiamo parlando di aziende private, quotate in borsa, il cui interesse non è la qualità del servizio, cosa che dovrebbe invece essere di primaria importanza per un bene da cui dipende la sopravvivenza e la stessa qualità di vita. L’interesse primario nelle aziende private è il profitto, la remunerazione del capitale investito dai soci, quella che la legge Galli del 1994 definisce “full cost recovery” che oltre al pareggio del bilancio, per le aziende che si occupano di acqua, prevede la remunerazione del capitale investito attraverso la tariffa del servizio idrico che ci troviamo in bolletta. In pratica il prezzo dell’acqua che paghiamo deve coprire i costi (acqua e manutenzione impianti), gli investimenti (ampliamento acquedotti ecc.) e la redditività cioè il profitto di altri su una cosa che è nostra. Ma non nostra, così per dire, nostra perché il nostro corpo è al 65% acqua.

Si per l'acqua.Ecco in sintesi quello che chiedono i due quesiti sull’acqua del referendum, che per agevolare il cittadino sono scritti in politichese. La parola chiave è abrogare. Ci chiedono se vogliamo abrogare l’articolo 23 bis della Legge n. 133/2008 che favorisce la privatizzazione del servizio idrico e l’articolo del Codice dell’Ambiente n. 154 del D.L. n. 152/2006 che prevede una remunerazione (o profitto) sull’erogazione del servizio. Due sì per riprenderci l’acqua.

Io però parlo di donne. Non me ne sono dimenticata. E sebbene l’abbinamento acqua-donna mi abbia subito richiamato all’annoso problema della ritenzione idrica in vista della prova bikini, in onore della Giornata Mondiale dell’acqua (22 Marzo scorso), il mio omaggio settimanale al mondo femminile va a Elinor Ostrom, primo premio Nobel donna per l’economia.

Elinor Ostrom.La Ostrom ha ottenuto il premio per i suoi studi sulla “gestione comunitaria dei beni comuni”, come l’acqua appunto, sostenendo che “ una gestione comune delle risorse, basata su regole condivise dai cittadini e sedimentate nel tempo, può risultare più efficiente di gestioni fondate sulla rigida assegnazione di specifici diritti di proprietà e di controllo a favore dei privati o dello stato” (C. Jampaglia, E. Montanari, Salvare l’acqua, 2010). In pratica la Ostrom auspica una gestione dei beni comuni né pubblica, né privata, ma comunitaria, basta sul comune senso civico dei cittadini e su scelte responsabili e razionali nella gestione di un bene vitale come l’acqua. Come disse James M. Buchanan, creatore della teoria della scelta pubblica, “Public choice is nothing more than common sense, as opposed to romance”.

In realtà il pensiero della Ostrom non è così rivoluzionario: art. 45 “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità senza fini di speculazione privata”. La nostra Costituzione ci aveva già pensato, ma per molti quella è solo una vecchia carta impolverata.

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