Enrique guida il camion in silenzio, sono quasi sicuro di non aver mai sentito la sua voce. In compenso sua moglie Ana non ha mai smesso di parlare. Non so che cosa stia dicendo però, mi sono rinchiuso in me stesso prima che iniziasse. Mi hanno caricato poco fuori Nazca in men che non si dica. Io vado a nord, loro pure. Non ho la forza per affrontare Lima subito dopo la grande delusione. Voglio prima passare del tempo in riva al mare. Nonostante ogni qualsivoglia calendario dica che sia estate piena, l’acqua del Pacifico pare ghiacciata. Da Osorno sto ripetutamente provando a concedermi anzitempo il primo bagno della stagione. Niente da fare.

L’allegra coppietta mi vende a parole una località balneare apparentemente incontaminata. Accetto subito. Dicono che non sia affatto turistica. Si chiama Parajas, un agglomerato di mattoni poco lontano dalla capitale, nonché giusto ai piedi di una straordinaria riserva naturale. Deluso dalle soventi menzogne dei sudamericani dubito sull’aggettivo della riserva, ma mi voglio fidare. Quique e Ana mi lasciano a Pisco. Mi servono appena una trentina di secondi per comprendere che forse è il caso di abbandonare la città in men che non si dica. Un combi mi carica per miracolo alla modica cifra di appena un Nuevo Sol. In poco meno di mezzora sono in riva al mare, la riserva è sempre più vicina. Sceso a Parajas non posso credere ai miei occhi: uno spartano lungomare con piccole spiagge qua e là, percentuale di peruviani elevatissima, vitto e alloggio costano una miseria. Aspettative confermate. Mi sistemo nell’unico ostello del paesino e, tempo dieci minuti, sono in riva al mare. Finalmente ce la faccio, stringo i denti ma mi immergo totalmente nell’oceano.

Uscito dall’acqua non posso riposare per nessun motivo al mondo: ogni peruviano che scorge il mio gringo volto cerca di vendermi escursioni di ogni tipo. Scappo in ostello per pranzare e riposare, nel pomeriggio visiterò la riserva. Una bianca amaca rapisce la mia attenzione, sono tutto suo. Quando apro gli occhi attorno a me è pieno di francesi. Inizialmente ho paura. In poco tempo, però, siamo tutti amici. Riusciamo ad accordarci per un paio di taxi diretti alla riserva naturale. Un’ora d’auto serve esattamente per farci dimenticare ogni forma di civiltà: siamo in mezzo al nulla. La parola “riserva naturale” aveva dipinto nella mia mente un verde bosco pieno di animali, invece il panorama che ho di fronte è tutt’altro: sabbia, sassi e ancora sabbia. Temo finirà per annoiarmi, ma a un certo punto il deserto si sposa con l’acqua ed inizia il paradiso. Non ho mai visto niente di simile, chi l’avrebbe mai detto. Il sole non è poi così forte, l’acqua non è poi così fredda. Mi sdraio in riva al mare e guardo il cielo. Non dormo, sono in totale balia del panorama. Dopo ben quattro ore di semi-silenzio (tutt’attorno solo le voci dei francesi) il clacson del taxi attira la mia attenzione: è ora di tornare in ostello. La strada del ritorno è indimenticabile, il sole cala ed il paesaggio acquista sempre più fascino. Deserto e mare vincono definitivamente il Pregiudizio Contest.

Ibrahim, il figlio del proprietario dell’ostello, dice di conoscere un posto in cui delle persone vendono del pesce. So benissimo che in realtà vuole solo sventolare il suo nuovo amico gringo per tutto il paese. Camminiamo. Ho come la sensazione che mi stia portando al mini porto di Parajas, chissà perché. Detto fatto: arriviamo diretti al molo dove quattro persone stanno sistemando il rispettivo ricavo giornaliero. Ibra pretende che io faccia finta di essere peruviano per riuscire a comprare il pesce ad un prezzo ragionevole. Pura utopia. Tranne sul prezzo ragionevole: con appena 20 Soles (poco più di 5 euro) ci portiamo a casa tre esemplari giganti. Non so nemmeno che pesci siano, ma sono giganti. Intanto i francesi hanno allestito una grande tavolata proprio nel grande giardino dell’ostello. Scende per cena tutta la famiglia di Ibra e si fa notte rispondendo alle tante curiosità dei peruviani. Tutto ciò che andavo cercando.

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