Ana Moura.

Comincio volentieri con una notizia di cronaca che, quando l’amico Riccardo Rozzera me l’ha comunicata, mi ha riempito il cuore e che spero faccia piacere ai nostri lettori e ascoltatori: torna in Italia Ana Moura per due date da non perdere: il 23 novembre, mercoledì, al teatro Grande di Brescia; il 24 novembre, giovedì, al teatro Colosseo di Torino (entrambe alle 21).

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Considero Ana Moura una grandissima artista, seppure ancora giovane, da poco più che trentenne. Di lei ho parlato qui mille volte, ho raccontato i nostri incontri e le serate passate tra fado e vino e baccalà nei vari locali di Lisbona, sempre assieme ad amici particolari e cari, come ovviamente Jorge Fernando. La sua voce caratteristica la fa considerare, non solo da me, una delle fadiste che più possono avvicinarsi al mito della divina e inarrivabile Amalia. Ana lo sa: non sarà mai Amalia, ma se continua sulla propria strada potrà essere ben riconosciuta come Ana, e questo è già un gran bel premio. Così moderna, così piacevole, ha attratto al fado due monumenti della musica rock e pop, come Mick Jagger e Prince, e anche questo è decisamente un risultato molto importante. Ana canta con grande bravura i classici, esalta “Barco Negro” in modo superlativo, dà una interpretazione sempre convincente e sempre nuova di Vou dar de beber a dor”, ma eccelle anche con i testi e le musiche del nuovo fado. C’è una sua interpretazione che qui ho già proposto e che fa sempre emozionare nel campo del nuovo repertorio, ed è quello di “Os buzios”, ma non si può dimenticare neppure “Chuva”, che Mariza e lei hanno cantato ognuna con il suo stile e sempre in modo straordinario. Che cosa può fare incuriosire di più in questa tournée è la presenza, alla guitarra portuguesa, di Angelo Freire (alla viola ci sarà Pedro Soares e al basso Felipe Rodrigues).

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Freire proviene dalla scuola di Custodio castelo, amico e vero maestro. E’ un giovane capace, ricco di talento e tecnica, che riesce a congiungere sulle corde cuore e cervello. Chi come me ha avuto la fortuna di vederlo già in azione, sa che il suo nome rimarrà impresso bene a lungo nella storia del fado. E’ poi un personaggio molto divertente, si diletta a cantare ed è a sua volta molto amico di un altro caro chitarrista classico, Diogo Clemente, ragazzo anch’egli straordinario, di una sensibilità musicale – e umana, aggiungerei – vivissima. Diogo e Angelo suonano spesso assieme, registrano molte volte assieme a cantanti e poi magari devono dividersi le tournée perché impegnati in nuovi progetti. Ecco: i giovani musicisti del fado sono sempre impegnati a lavorare per migliorare il loro orizzonte, per fare sì che il fado diventi una musica non solo per le taverne, ma un vero e proprio genere transnazionale nel nome di un Portogallo vero e originale. Ecco perché adoro i vecchi maestri, ma ritengo che giovani musicisti come quelli che ho nominato e tanti altri a partire da Ricardo Rocha stiano facendo diventare “classica” una musica essenzialmente “popolare”.

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Ma è indubbio che io ami in modo maggiore, direi spasmodico – ma per una questione di sensazioni sulla pelle – lo spirito che il fado emana a livello di popolo. Non perché non apprezzi ciò di cui parlavamo prima, ma perché nelle vecchie taverne del Bairro Alto e dell’Alfama si respira un’aria più acre, meno raffinata, sincera ugualmente, che di certo mi fa sentire più a mio agio. Forse perché alla musica da sola preferisco musica e parole e preferisco vedere le cantanti stringersi nello scialle o i cantanti impettiti con le mani in tasca, quasi dandy di un tempo che non passa mai. Sarò anche questione di una pervicace voglia di riprendermi il tempo passato, da me non vissuto, quello in cui il fado era cronaca viva di una città povera e che ora troppi sentono – fra chi la visita – solo come offerta per i turisti. Non lo è, neppure quando accoglie bus interi di stranieri: anche i tedeschi, così rigidi nei loro sentimenti, quando escono dalle case sono emozionati. Anche perché non lo si può non essere ascoltando Celeste Rodrigues o Argentina Santos. Ho visto nordici piangere impazziti dopo le loro interpretazioni.

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Celeste e Argentina, più che ottuagenarie, sono le ultime e rare vestali di un tempo che fu, sono rappresentazioni viventi di una storia popolare nata e cresciuta nei quartieri poveri, dalla Mouraria all’Alfama alle banchine del porto. Ascoltarle, però (e purtroppo lo potremo fare sempre di più solo nelle registrazioni e nei dischi), dà forza e voglia di sentirle ancora, di raccontarsi con loro e sentire i loro racconti. Non smetterò mai di dirvi che cosa significa averle conosciute così bene, averne ottenuto la fiducia. Capirne i difetti, ma esaltarne i troppi pregi. Sono le “zie” di Lisbona e lo sono anche per le giovani artiste. Amano Ana entrambe, amano Dulce entrambe. Non potevamo non andare d’accordo.

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