Per anni di Taranto e della sua mostruosa acciaieria non se ne è parlato, se non strettamente in città. Fino a poco tempo fa, moltissimi italiani non sapevano neppure dove fosse Taranto con i suoi due mari e l’acciaieria, crudele ma essenziale. Ora però che finalmente la denuncia è massiccia e plateale, il dramma non è più solo nei danni irreversibili fisico-ambientali e sanitari che Taranto subisce, il dramma si consuma in tutte le persone che zittite omertosamente accettano queste condizioni, vivendo come se non vedessero o meglio come se non respirassero a Taranto. Anna Dora Dorno della compagnia Instabili Vaganti è tra le voci di questa denuncia reattiva, una voce efficace ed emotivamente impattante, come solo il linguaggio delle Arti sa essere; ha scritto, costruito e diretto uno spettacolo teatrale commovente, riconosciuto e pluripremiato, che racconta e descrive profondamente la condizione dell’operaio della fabbrica d’acciaio più ampia d’Europa [la superficie occupata dagli impianti supera quella dello stesso centro abitato]. Utilizzando gli strumenti che il teatro mette a disposizione e che le appartengono – in quanto regista,  attrice, performer e pedagoga teatrale tarantina – Anna Dora porta in scena per l’Italia una testimonianza importantissima. Corpo, voce e azione.

«L’attore spinge il suo corpo al massimo, compiendo azioni acrobatiche e ripetitive all’interno di strutture metalliche, interagendo continuamente con video proiezioni, musica dal vivo, suoni che diventano ritmi ossessivi, e una voce femminile che gli ordina “Lavora! Produci! Agisci! Crea!”. Egli vive eternamente intrappolato tra il desiderio di scappare dalla gabbia incandescente e la necessità di continuare a lavorare per sopravvivere.»

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“L’Eremita Contemporaneo MADE IN ILVA” è la tua prima composizione drammaturgica sulla città?

Si, anche se non credo che lo spettacolo parli solo di Taranto e della città. Si tratta più di un archetipo che abbiamo esplorato attorno al concetto delle fabbrica e del lavoro che rende alienati. Condizione che sembrerebbe ormai oltrepassata se non ci fossero luoghi come l’ILVA a conservare questo triste modello produttivista e capitalista. Lo spettacolo è il frutto di un lavoro molto lungo che aveva visto degli studi precedenti in cui si parlava anche della mia esperienza biografica, di un desiderio comune a molti miei coetanei, quello di andare via dalla città, di fuggire. Col tempo però il lavoro si è concentrato sul tema della fabbrica e sul sentire attraverso il corpo la costrizione di una condizione imposta dal sistema produttivistico contemporaneo.

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Che esperienza hai vissuto a Taranto? Da quanto tempo non abiti più lì?

Ormai non abito più a Taranto da 15 anni. Dopo l’Università ho cercato di tornare a vivere in Puglia ma non era ancora, forse, il momento. Non si avvertivano ancora segni di riprese e nel settore artistico credo fosse ancora più difficile creare qualcosa di diverso. Ho provato a lavorare come attrice ma inutilmente quindi ho deciso di tornare nella città in cui avevo studiato, Bologna, dove da 5 anni gestisco un Centro di ricerca per le arti performative e da dove ho potuto fare base per sviluppare i miei progetti in giro per il mondo. I sentimenti che provo quando torno o penso a Taranto sono contrastanti: rabbia e impotenza si alternano al desiderio di vivere nella mia terra, al piacere dei paesaggi, all’amore per il mare, poi di nuovo tristezza e nostalgia che si alternano al sollievo di essere riuscita a crearmi altro. Insomma credo siano sensazioni comuni a molti tarantini che vivono in altre città.

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Concordo pienamente. Perché la scelta del termine “eremita” per il titolo?

Il percorso di costruzione di questo spettacolo è stato lungo e complesso, come dicevo prima. Ci siamo avvicinati al tema della fabbrica tramite un altro dei nostri progetti. Stavamo lavorando sulla figura di uno scrittore pre-romantico schizofrenico, J. M. R Lenz, e attraverso questo siamo venuti a contatto con i testi dell’autore Peter Shneider che ambientava il suo personaggio ispirato a Lenz all’interno di una fabbrica. La fabbrica è poi diventato un nucleo di indagine a se stante che ovviamente ha richiamato alla mia mente la fabbrica che meglio conoscevo: l’ILVA. L’Eremita è il titolo di un libro di J. M. R Lenz. Un giorno mentre ascoltavo le testimonianze di un ragazzo molto giovane che lavorava all’ILVA e che diceva di dover partire la mattina alle sei da uno dei paesi in provincia di Taranto, per poi tornare la notte a casa, senza aver visto praticamente la luce ma vivendo in questa sorta di “inferno contemporaneo”, ho deciso che il titolo dello spettacolo sarebbe stato appunto l’Eremita Contemporaneo.

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Quanti operai hai incontrato e intervistato per costruire il testo, corpo del progetto?

Non saprei dire con quante persone ho parlato e di quante altre ho letto scritti, pensieri, visto video, etc. Però mi sono concentrata di più sui ragazzi giovani, quelli che si ritrovano a lavorare all’ILVA perché non hanno altra scelta, quelli che mi raccontavano di sognare quegli ambienti tutte le notti, gli amici che poi sono andati via, non solo in altre città d’Italia ma anche in Germania o altre zone d’Europa. Mi ha colpito inoltre moltissimo il diario di un operaio che scriveva poesie, come il poeta Luigi Di Ruscio, definito “Poeta Operaio”. Il linguaggio poetico lo trovo più vicino al nostro modo di lavorare perché si basa su aspetti emotivi e non su dati e percentuali. Mi interessava trattenere emozioni più che pareri o biografie.

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È estremamente interessante che l’attore Nicola Pianzola, straordinario interprete di questo monologo, non sia tarantino ma porti nella sua recitazione tratti caratteristici della popolazione cittadina. Credi che quella dell’operario contemporaneo che lavora all’Ilva sia una figura in cui si possa immedesimare anche un pubblico che non conosce personalmente le ferite di Taranto?

Il mio personaggio non è un personaggio reale, è un simbolo, un archetipo e ci è capitato spesso che si siano immedesimati in lui, non solo operai o parenti di operai che hanno lavorato in fabbriche o addirittura all’ILVA stessa, ma anche altre categorie di lavoratori, costretti ad avere gli stessi ritmi frenetici e alienanti.

Tra qualche giorno, il 22 febbraio, voi e lo spettacolo sarete finalmente a Taranto, di scena al Tatà con una sola, determinante, replica. Come vi preparate a questa occasione?

Siamo molto emozionati e contenti di portare il lavoro a Taranto, ovviamente anche per una questione biografica. Non nascondo tuttavia qualche timore perché il nostro spettacolo non segue i canoni tradizionali del teatro civile e di denuncia, ma è un teatro fisico, emozionale e quindi potrebbe risultare “diverso” rispetto a quello che il pubblico si aspetta. Io spero che questa diversità sia invece apprezzata come segno di pluralità di voci, come strumento espressivo “altro” che caratterizza una forma espressiva come il teatro di ricerca. Un contributo in più alle numerose voci che stanno lottando per un futuro migliore per la città di Taranto e i suoi abitanti.

A cura di Cristina Principale