Boom!!BOOOMM!!!
E’ bastato far apparire la parola “classe” nel titolo di un paio di articoli ed ecco un’autentica esplosione di commenti in cui si cita Marx, si parla di capitalismo e di rapporti di classe e così via!
Uno spettro si aggira per … il web?
Un fantasma che si trascina una catena di domande, alcune delle quali cadono come macigni sul vostro umile rubricista.
Lungi dal sentirmi in grado di dare risposte, provo ad alimentare il nostro dibattito con alcune considerazioni.


Primo. “Il capitalismo crea le crisi per poter creare nuove condizioni di accumulo del capitale”, si afferma in un commento. Ineccepibile.
Andrebbe aggiunto che l’accumulazione del capitale tende a rallentare nel tempo a causa delle stesse condizioni che ha determinato. Ad esempio: attraverso l’introduzione di nuove tecniche produttive aumenta il volume delle merci e dei profitti, ma la sovrapproduzione che ne deriva determina uno squilibrio tra le merci prodotte e quelle acquistabili con un declino delle possibili vendite e, quindi, dei profitti. Nella fase “storica” del capitalismo, queste crisi (di sovrapproduzione) venivano risolte con le guerre.

Secondo. “Questa crisi segue a quella della fine degli anni sessanta”, prosegue il commento.
D’accordo solo se consideriamo quella crisi come frutto dell’aumento dei costi di estrazione e di produzione del petrolio.
Come si diceva più sopra: l’accumulazione di capitale tende a rallentare per le condizioni determinate dall’accumulazione stessa. In questo caso il consumo di petrolio come fonte energetica ha fatto aumentare i prezzi della materia prima e perciò diminuire i profitti (e quindi l’accumulazione).
Il prezzo del petrolio, grafico.

Terzo. Viene inoltre sostenuto che: “Il capitale aveva bisogno di riconquistare spazi d’azione senza che dovesse confrontarsi e negoziare con un movimento operaio organizzato.”
E si ritorna allo stesso punto. Il bisogno di mano d’opera (oltre a quello di allargare la base dei consumatori) aveva portato ad un aumento dei salari dei lavoratori e soprattutto del potere contrattuale della classe operaia (tanto più forte in quanto concentrata in enormi strutture produttive con decine di migliaia di addetti) che, alla lunga, portava ad una diminuzione dei profitti e, soprattutto, della concentrazione di potere nelle mani dei capitalisti. Una delle risposte a questa crisi di potere (probabilmente la più importante) è stato l’impulso impressionante dato alla automazione della produzione che ha praticamente fatto scomparire intere categorie professionali (tornitori, fresatori, saldatori, ma anche disegnatori tecnici e impiegati) sostituendole con macchine a controllo numerico, robot e computer, svuotando le fabbriche. isole rob Solo successivamente vi è stato il ricorso massiccio alle delocalizzazioni alla ricerca di serbatoi di mano d’opera a basso costo (sostanzialmente dalla fine degli anni ’80, mentre l’automazione della produzione prende avvio dall’inizio di quel decennio).

E quindi? “Marx direbbe che siamo di fronte ad una nuova crisi del capitalismo”, chiosa il nostro acuto commentatore.
Ecco il punto su cui non sono d’accordo. Intendiamoci: non so cosa direbbe Marx (se fosse ancora vivo, probabilmente citerebbe Alessandro Bergonzoni: “Caspita! Sono un bel po’ longevo!”).
Ma a mio avviso non è una “nuova crisi”. Quelle intercorse finora sono state crisi “nel” capitalismo: crisi create dal capitale, come si diceva poc’anzi, per creare nuove condizioni di accumulo. Le trasformazioni in atto, il mutamento del sistema produttivo, sta conducendo – al contrario – ad un cambiamento sostanziale dei prodotti e dei meccanismi di accumulazione dei capitali e della concentrazione del potere. Siamo, cioè, davvero di fronte ad una crisi “del” capitalismo (e delle sue istituzioni).

Vorrei tornare sulla natura di questa trasformazione nei prossimi articoli, ora mi limito a definirlo come il prevalere del “prodotto immateriale” (conoscenza, software, informazioni, finanza) rispetto al “prodotto materiale” (le cose concrete: case, automobili, elettrodomestici, ecc.). E’ un passaggio che, come ho scritto nell’ultimo articolo, ha la stessa portata di quello dal feudalesimo (sistema basato sulla proprietà della terra) al capitalismo (basto sul capitale e sulla proprietà delle fabbriche).
E’ un passaggio da un “sistema” ad un altro (che ancora non si è delineato né definito). Ed è un passaggio appena cominciato e che comporta, com’è ovvio, un acceso conflitto.
Un conflitto, occorre dire, che a questo punto non è più tra classe operaia e capitalisti, ma tra le due forme di accumulazione e di potere che noi, in mancanza di termini più adeguati, continuiamo a chiamare capitalismo: il capitalismo industriale e il capitalismo finanziario. E’ un conflitto che, nei paesi industriali avanzati, si “scarica” sulle classi lavoratrici (il famoso 99% degli indignados), ma avviene all’interno di quel’1% contro cui gli indignados protestano.

In queste temperie, Monti (ma anche Obama, Merkel e Sarkozy) e il governo dei professori hanno avuto un “riflesso di classe”, sono corsi in soccorso delle banche (non della finanza, ad essere onesti) convinti, come nel celebre pezzo di Mary Poppins, che ogni penny messo in banca si trasformi in “ferrovie in Africa e dighe in Canada”.

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Convinti, cioè, che il rafforzamento delle banche (anche a spese dei lavoratori) sia il mezzo per salvare l’economia e la produzione.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, che al loro fianco si ritrovino una sinistra che, persa la prospettiva di governare il cambiamento del mondo, si illude di potersi sedere negli stessi banchi e, come certi studenti impreparati, di riuscire a copiare la versione di greco, giusto per rimediare la sufficienza. Che, fuor di metafora, significherebbe cercare di difendere livelli dignitosi di occupazione e favorire un minimo di distribuzione della ricchezza.
Forse l’unica strategia possibile per una sinistra subalterna che non possiede più autonome categorie concettuali per analizzare – e progettare – il mondo e che può solo chiedere e offrire una parvenza di pace sociale che, come dimostrano il “movimento dei forconi” e le sempre più diffuse intemperanze a sfondo razzista, rischia continuamente di generare fenomeni ribellistici, populistici, corporativi e fascistoidi. Movimento dei forconi

5 Commenti

  1. x il dibattito

    Il concetto di decrescita va visto, comunque, in termini di innovazione.
    Attualmente uno dei tanti fattori di crisi del capitalismo è la sovraproduzione.
    Decrescere vuol dire produrre in maniera intelligente per evitare proprio la sovraproduzione.
    Producendo al minimo, di conseguenza, anche il profitto tende al minimo.
    Un’automobile, ad esempio, deve essere progettata e costruita per durare 30 anni e per essere mantenuta costantemente.In questo modo il profitto si uniforma tra i costruttori (grandi produttori) e i manutentori (piccoli produttori).
    Lo stesso concetto vale per qualsiasi prodotto.
    Un altro aspetto fondamentale della decrescita è il modo di trasformare l’energia.
    Se ogni abitazione o nucleo industriale diventasse un auto-produttore di energia diffusa e scambiabile, si batterebbero i monopoli energetici, tra cui il famigerato Stato-rubinetto e pure il rendimento complessivo dell’insieme delle trasformazioni energetiche migliorerebbe.
    Ciò porterebbe a un miglior uso della natura.
    Insomma il capitalismo concentra e distribuisce, pure male…. la decrescita, semplicemente, diffonde !

  2. grazie. Per il punto uno bisogna rifarsi un pò alla storia e alle teorie economiche. E’ ovvio che il processo di trasformazione attraverso l’intervento del lavoro crea valore. Da quì si genera il pluvalore. La società capitalistica ha reso il processo abbastanza efficiente ed ha permesso di utilizzarlo per la crescita economica, oltre che per arricchire chi detiene il capitale investito. Altri modelli che non hanno utilizzato e gestito il profitto non hanno mostrato di essere efficienti ed efficaci. L’esempio più evidente dei nostri giorni è la Cina che è diventata una potenza economica nel momento in cui ha reintrodotto il profitto e lo ha distribuito, anche a soggetti privati. Il possesso è una forte molla nell’uomo e pensare di non considerare questo fenomeno rischia di comprometter qualsiasi tentativo di modificare il modello. Per questo la mia domanda e cioè in qual modo si gestisce e distribuisce il profitto
    il punto 2 è sicuramente più complesso ed è stato molto acuto nel cogliere il limite della mia affermazione. Gli argomenti sono complessi ma per essere sintetici io penso che l’uomo ha una innata, fa parte della sua storia evolutiva, a conoscere e attraverso questo istinto-necessità modifica il rapporto con la natura. Dunque continuerà a sviluppare nuova conoscenza e modificherà il suo rapporto con la natura e dunque per sua natura introdurrà nuovi livelli di crescita. Per semplificare nuove tecnologie permetteranno di interagire con la natura in maniera diversa, produrranno nuovi prodotti e alla fine nuova crescita economica. Il problema sta nel ridefinire come si misura questa crescita e che prodotti saranno messi a disposizione. In questo senso credo che decrescita sia un errore. Diverso è se per decrescita di intende una modifica del concetto di consumo

  3. Come sempre sono interessanti le sue considerazioni, ma non capisco bene una cosa, anzi due:
    al suo punto 1) la risposta è già nel punto 1) stesso, o no?;
    sul punto 2) non capisco perchè la decrescita sarebbe in contrasto con la ricerca…me lo spiegherebbe più per esteso?

  4. norman prende spunto da alcune delle considerazioni che facevo per, giustamente, allargare l’analisi. Molte delle cose che scrive sono naturalmente in linea con quel che provavo a dire. Un punto però rimane da approfondire e che forse non ci trova d’accordo, o meglio richiede nuove categorie. Il punto è se oggi assistiamo alla CRISI DEL CAPITALISMO o è UNA DELLE crisi. Due considerazioni:1) in Marx veniva già analizzata ed in qualche maniera prefigurata la creazione di denaro attraverso denaro, cioè quel a cui stiamo assistendo oggi la finanziarizzazione dell’ economia. Questa è stata la risposta del sistema capitalistico alle crisi precedenti ed ha permesso di trovare nuove forme di accumulo. Nessuno può negare che tra gli anni 80 ed il 2007 non vi sia stato un enorme accumulo di capitale. Tra l’altro questo ha permesso di portare fuori dalla povertà milioni di persone, dati OCSE ci mostrano che mai nella storia la povertà nel mondo era diminuita così fortemente. Naturalmente il processo ha portato a nuove povertà, e quì bisognerebbe differenziare povertà assolute e relative e povertà comparate. Ma sarà per un altra volta anche se questo è un problema cruciale per analizzare la crisi dell’ occidente.
    2) Il capitalismo, ammettiamolo, ha dimostrato una grande capacità di riformarsi,di trovare nuovi spazi e condizioni attraverso cui riaffermare le sue leggi e soprattutto di mantenere il processo di accumulazione.
    Da queste due considerazioni io traggo la conclusione che sostenere che questa sia LA crisi del capitalismo vuol dire da un lato non aver capito la lezione della storia e dall’ altro pensare di avere la sfera di cristallo. Per cui bisogna avere un pò di prudenza. Questo vuol dire negare l’acuità della crisi? Al contrario io condivido la considerazione che siamo di fronte all’ inizio della fine di un impero, l’impero occidentale che è durato più di 300 anni e da ultimo ha avuto negli USA il dominatore. Come sempre nessuno può dire quanto durerà la fase calante e quale nuovo impero sorgerà. Ma il dire che l’impero occidentale sta per finire vuol dire che il capitalismo finirà? Non necessariamente. Le possibilità di estrazione di valore e di accumulo sono ancora enormi, vasti territori sono ancora da sfruttare, la tecnologia permette di sfruttare sempre di più ed in maniera efficiente le risorse. Poi se guardiamo alle forze che stanno affermandosi come antagoniste all’ occidente, Cina, India Brasile sono tutte economie capitalistiche. Almeno di commettere l’errore di considerare il capitalismo di stato come un non capitalismo. Marx considerava questo non parte del socialismo e, se si legge uno degli ultimi numeri dell’ economist con la prima pagina raffigurante Lenin, l’idea di un capitalismo di stato comincia ad essere discusso anche dalle elite capitalistiche. Voglio dire di più. Ho sostenuto da almeno due anni che questa crisi, per l’occidente, è più grave e profonda di quella del 29ma non posso trarne la conclusione che rappresenta la fine del capitalismo. Quì sorge la domanda a cui non ho risposte certe e che ha che fare con il ruolo della sinistra. E bisognerebbe discutere cosa vuol dire sinistra. La sinistra ha la capacità di elaborare un nuovo modello di coesione e di sviluppo sociale? E di spiegare quale sia il percoso, i modi ed i tempi per raggiungerlo? Questo vuol dire prendere in considerazione non solo gli aspetti economici, in cui Marx ci può aiutare, ma anche gli aspetti antropologici di come sono fatti gli esseri umani e di come si è venuto a modificare la struttura socio-economica del mondo, e quì Marx non ci aiuta per niente. Ad esempio Norman giustamente dice che la composizione della classe dominata è fortemente cambiata e dunque si tratta di ridefinirla. Ad esempio tutto il lavoro professionale, borghesia per intendersi, oggi è parte della classe sfruttata. Ma lo sono anche i piccoli imprenditori!!!! Insomma ne abbiamo di strada. Ma ci sono due o tre questioni che voglio mettere sul tappeto:
    1) come si gestisce il plusvalore, cioè il profitto? La storia ha dimostrato che il profitto è essenziale per creare e distribuire ricchezza. E la spinta al miglioramento delle condizioni socio-economiche è una delle grandi e primordiali esigenze dell’ uomo.
    2) il conoscere ciò che non conosciamo è forse l’aspetto più importante dell’evoluzione. SI può fermare questo motore fondamentale? Siccome non lo credo ogni teoria della decrescita a mio giudizio è insoddisfacente con questa esigenza
    3) si può negare ai miloni di emarginati dei paesi sottosviluppati di emergere da una situazione di povertà assoluta? Credo che tutti concordiamo che al contrario bisogna trovare gli strumenti attraverso cui questo possa avvenire. Quì il capitalismo ha mostrato di avere delle buone carte, esistono altri modelli?

  5. @ Norman Bates

    Non farei tante suddivisioni al modo di essere del capitalismo.
    Semplicemente, il capitalismo usa il potere economico che dà maggiori rendimenti creando vistosi differenziali nella distribuzione della ricchezza.
    Ora siamo in una fase in cui i flussi energetici si stanno spostando verso le produzioni leggere, la finanza in primis,vista come entità autonoma dal lavoro e dalla impresa per creare ricchezza e il capitalismo che conta è quello delle grandi corporation bancarie.
    Questo sistema però è in grande difficoltà e sicuramente non può essere sostenuto a lungo.
    Nel caso dell’Italia, ma la stessa cosa vale per tutti i principali paesi industrializzati, si sta andando verso un periodo di grande povertà.
    Ieri a Ballarò si parlava, con la massima naturalezza , di una manovra di 50 miliardi all’anno per 20 anni per uscire dalla spirale del debito !
    I partiti straparlano nei talk show ma di fatto sono muti, seguono gli eventi e nessuno , sinistra compresa, prova a immaginare modelli diversi dall’attuale.
    Sembra che o si salva il consumo capitalismo e crolla tutto !

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