Nel settimanale Internazionale del 22 giugno mi è capitato di posare lo sguardo su un articolo (scritto da George Monbiot) del giornale inglese The Guardian, dal titolo Il pianeta ha bisogno di tutti: “Strangolato dalla speranza. Questo è il destino di chi ha provato a difendere gli ecosistemi della Terra. Ogni volta che i governi si riuniscono per discutere la crisi ambientale ci dicono che è il vertice dell’ultima spiaggia, l’incontro da cui dipenderà il futuro del mondo, e che dopo tanti fallimenti la luce della ragione illuminerà il pianeta. Sono tutte balle, e lo sappiamo. […]”

Che dire, potremmo stare qui a commentare per pagine e pagine questa pungente e chiarissima riflessione. I grandi della Terra avevano “promesso”, nel 1992 a Rio, che nel 2012 i problemi ambientali sarebbero stati risolti. Ricordatemi… in che anno siamo?

L’acuto giornalista ci ricorda che “i summit e le banche falliscono per lo stesso motivo. I sistemi politici che dovrebbero rappresentare tutta la popolazione creano governi milionari, finanziati e manovrati da miliardari. Gli ultimi vent’anni sono stati un banchetto per ricchi. Su richiesta delle multinazionali e dei miliardari i governi hanno rimosso ogni legge di tutela dei più deboli. Chiedere a questi governi di proteggere la biosfera e difendere i poveri è come chiedere ad un leone di mangiare solo gazpacho (per chi non la conoscesse: zuppa fredda a base di verdure crude, tipica della cucina spagnola). […]”

Come dargli torto? Ma il punto è, deve essere un altro. La lotta alla crisi dell’ambiente, così come a tutte le ingiustizie, non può essere combattuta da chi è, volutamente o indirettamente, coautore di questo sistema perverso. I nostri diritti, i diritti del pianeta devono essere sostenuti dal basso. È dal basso che vengono i cambiamenti reali e radicali. È dal basso che si originano i movimenti democratici. La Primavera Araba, o come vogliamo definirla, che si è diffusa a macchia d’olio tra Nord Africa e Medio Oriente, ne è un esempio lampante e disperato. Non è pensabile aspettare che il cambiamento giunga dall’alto. Che un “capo” magnanimo capisca i bisogni dell’umanità e provveda per tutti. Ma noi occidentali siamo abituati al benessere, a lamentarci se qualcosa non va e a pretendere che qualcuno se ne occupi e risolva. Disprezziamo chi imbratta palazzi e monumenti e chi abbatte intere foreste, guardiamo di traverso chi getta i mozziconi di sigaretta per strada e chi non si preoccupa di differenziare la spazzatura, restiamo sconvolti dalla pratica criminosa di tante aziende che producono senza smaltire rifiuti tossici. Eppure continuiamo a prendere l’auto per fare poche centinaia di metri, restiamo mezz’ora sotto la doccia, di sera accendiamo tutte le luci dell’appartamento perché ci piace la casa illuminata, manteniamo i riscaldamenti accesi per ore ed ore perché il freddo è fastidioso.

Quanti dei nostri gesti quotidiano sono sostenibili? E quanti, invece, non lo sono? Quanto siamo educati al risparmio energetico e quanto ci interessa? Perché se la nostra esistenza è sopravvivere indifferenti al presente, allora il futuro non è affar nostro. Ma se il presente che viviamo oggi è il presupposto per un futuro potenzialmente migliore o peggiore, allora ogni gesto assume un significato. E ciò che succederà domani a questo mondo è solo nostra responsabilità.

 

1 commento

  1. Cara Eleonora,
    complimenti per la nuova rubrica e per i primi articoli.
    Concordo pienamente sul fatto che dobbiamo imparare a sentirci corresponsabili sempre della salute del pianeta sul quale, noi tutti, viviamo.
    Credo che ti scontrerai con una mentalita’ spesso errata: “Io mi comporto al meglio, sono gli altri quelli che inquinano …”
    Non mollare e continua a tenere deste le nostre coscienze. Grazie dei tuoi contributi.

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